(Movieplayer)

Quarto, 5 maggio 1860. Giuseppe Garibaldi (Tommaso Ragno) sta organizzando quella che passerà alla storia come la Spedizione dei Mille, nell’intento di liberare il Sud Italia dal regno dei Borbone, consentendone l’annessione a quello dei Savoia. Del reclutamento dei volontari se ne occupa il colonnello palermitano Vincenzo Giordani Orsini (Toni Servillo), assistito dal suo attendente, il tenente Ragusìn (Leonardo Maltese). Reduce da undici anni trascorsi tra le fila dell’esercito ottomano, dopo essere stato uno dei capi dell’insurrezione siciliana del 1848, il milite ostenta ferrea disciplina, idealismo e una vena d’amara disillusione. Crede comunque che tutti possano offrire il proprio contributo alla causa, magari rinvenendo nella lotta per uno scopo comune la spinta necessaria a travalicare ogni sorta di gretto individualismo.

Ecco perché è favorevole all’arruolamento, tra gli altri, di due individui, siciliani anche loro, che di primo acchito  non sembrano pregni di spirito patriottico, il claudicante Domenico Tricò (Salvo Ficarra), un passato di artificiere tra le feste di paese, il recente lavoro di fuochista su di una nave e il truffaldino Rosario Spitale (Valentino Picone), che millanta la frequentazione di un’accademia militare ed esibisce un accento veneto. Una volta sbarcati a Marsala, accolti dalle cannonate borboniche, ecco i due rivelare la loro vera natura. Si daranno infatti alla fuga, dapprima separatamente e poi insieme, confidandosi l’un l’altro. Domenico ha inteso far ritorno sull’isola natia dopo dieci anni per sposarsi con la fidanzata di un tempo e metter su famiglia, mentre Rosario, abile baro, è in fuga per scampare all’arresto.

Toni Servillo (Movieplayer)

Troveranno rifugio in un convento, mentre i garibaldini proseguiranno la loro avanzata, conseguendo una vittoria a Calatafimi, pur nell’evidente inferiorità numerica rispetto alle truppe avversarie, guidate dal colonnello Jean Luc Von Mechel (Pascal Greggory). Per poter arrivare a Palermo senza subire ulteriori perdite, Garibaldi escogiterà un diversivo: un manipolo di soldati, guidati da Orsini, cui si aggiungeranno Tricò e Spitale, fuggiti dopo alterne vicende  dal convento ed incontrati lungo il cammino, si muoverà nell’entroterra, così da far credere ad una ritirata, mentre il resto dell’esercito proseguirà nella sua missione…

Diretto da Roberto Andò, anche autore della sceneggiatura insieme ad Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, L’abbaglio pone in scena una reale vicenda storica, quella inerente alla cosiddetta “Colonna Orsini”, che ha avuto sporadica ospitalità all’interno di qualche tomo, offrendo comunque ispirazione a Leonardo Sciascia per il racconto Il silenzio, 1963, pubblicato nella raccolta postuma Il fuoco nel mare (Adelphi, 2010). La narrazione media tra storia ed invenzione, alternando comicità e dramma, alla maniera della commedia italiana di un tempo, accostando la “storia minuscola” di due picari senz’arte né parte, il cui precipuo ideale è la salvaguardia di un personale tornaconto, a quella “maiuscola” inerente determinati accadimenti dell’intera nazione.

Salvatore Ficarra e Valentino Picone (Movieplayer)

La confluenza tra le due entità, come esplicitato nel finale, non avrà nulla di eroico, anzi rivelerà l’italica propensione, in forma di moto perpetuo, a ricercare un equilibrio tra diverse ideologie mai definitivo, preferendo servirsi dell’una o dell’altra a seconda delle varie convenienze in gioco. Quanto testé descritto, personale opinione, si sostanzia quale caratteristica propria di una popolazione che, riprendendo le parole di Indro Montanelli nel rispondere ad una domanda di Giuseppe Prezzolini, “non si divide in furbi e fessi, sono nello stesso tempo tutti furbi e fessi”. Il film dunque, scevro dall’indulgere verso la celebrazione retorica o romantica, va ad instaurare un doppio binario, quello sul quale scorrono le vicende di “gatto e volpe”, dall’impronta comica e irriverente (le sequenze in convento, dove assume un ruolo importante la figura della novizia Assuntina, interpretata da Giulia Andò), con qualche punta di riflessione (l’incontro con alcuni giovani pastori inneggianti a Garibaldi), e l’altro contornato dalle vicende belliche.

Quest’ultime vengono rimarcate nel loro sviluppo dalle constatazioni, solenni e meste al contempo, del colonnello Orsini (un sempre eccellente Servillo), rivolte alla Sicilia, ai suoi abitanti, “un popolo che si rivela soprattutto nei silenzi e nelle parole che non dice“, piagato dalla miseria e dai soprusi dell’aristocrazia, sostenuta dalle “istituzioni” locali, ma ancora profondamente umano, capace di avvertire pietà o esternare accoglienza e coraggio.  “E si chiese se davvero avevano il diritto di portare a gente simile nuove sofferenze, la violenza della guerra, il rischio della devastazione e del saccheggio, e in nome di che cosa. In nome della libertà di scrivere dei libri, di pubblicare dei giornali, di eleggere dei rappresentanti?…E la libertà di non avere fame, di abitare in luoghi più umani, di vestire dignitosamente?” (dal citato racconto di Sciascia, Il silenzio) .

Orsini invita comunque il giovane ed irruento attendente a coltivare il senso di un’indomita speranza, per sempre e malgrado tutto, sottolineando in più di un’occasione l’auspicio della fine di un’epoca, la morte di una società incancrenita dai suoi stessi agi e tormentata da un paventato cambiamento che  avrebbe posto fine ad essi, pur intuendo, probabilmente, come questi si sarebbero presto ripresentati in veste inedita ma con identica sostanza. É l’assunto espresso ne Il Gattopardo (Giuseppe Tommasi di Lampedusa, 1958) da Tancredi Falconeri nel parlare con lo zio Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”,  da collegare con quel “ora che l’Italia è fatta dobbiamo fare gli affari nostri”, presente tra le pagine de I Viceré (Federico De Roberto, 1894).

L’abbaglio è girato con maestria, asseconda fluidamente stilemi western, in omaggio a John Ford, come dichiarato dallo stesso regista (lo fece anche Pietro Germi ne In nome della legge, 1949), evitando qualsivoglia senso di epicità. Insinua anzi, riprendendo quanto scritto, un sentore di malinconico disincanto ed abbraccia un affabulante senso del racconto, sanamente popolare, in cui è possibile rinvenire tracce de La grande guerra (Mario Monicelli, 1959), ma anche de I due marescialli  (Sergio Corbucci, 1961). Pur evidenziando come il duo Ficarra e Picone abbia raggiunto un certo equilibrio, probabilmente definitivo, nell’orchestrare il consueto gioco di spalla reciproco, il vostro amichevole cinefilo di quartiere si unisce alle considerazioni di quanti hanno notato come non sempre i due citati registri, comico e drammatico, trovino un congruo bilanciamento.

Ritengo comunque L’abbaglio una realizzazione complessivamente riuscita, in quanto riesce nell’intento di porre in essere una parabola che parte dal passato per parlare del nostro presente. La congiunzione tra le due realtà avrà luogo dieci anni dopo l’unità d’Italia, in una casa adibita a bordello e bisca, dove Orsini rincontrerà Tricò e Spitale, constatando quanto l’eroismo possa stemperarsi nell’ imperitura arte d’arrangiarsi, fino a mutare come i serpenti la pelle ad ogni cambio di stagione. Un eterno Carnevale, dove, citando Pirandello, s’incontrano “milioni di maschere e pochissimi volti”.

Immagine di copertina: Movieplayer

Una replica a “L’abbaglio”

  1. […] L’orto americano di Pupi Avati (28 aprile), che si misura con una storia a tinte dark e horror e L’abbaglio di Roberto Andò (5 maggio) che racconta una pagina poco nota della spedizione del 1000 di Garibaldi […]

    "Mi piace"

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

In voga