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Roma, 6 maggio 1938. Adolf Hitler e tutto il suo apparato fanno il loro ingresso trionfale nella Capitale, accolti dal duce Benito Mussolini. I cittadini accorrono in massa per assistere allo storico incontro tra i due dittatori, i grandi caseggiati si svuotano già dalle prime ore del mattino, come avviene in quello dove abita la casalinga Antonietta (Sophia Loren), sposata con  Emanuele (John Vernon), impiegato ministeriale nonché fervente fascista, e madre di sei figli. Lei non parteciperà all’evento, deve sbrigare le varie incombenze domestiche, da buon “angelo del focolare”, come la patria esige. Per un evento fortuito, il merlo è volato via dalla gabbia uscendo dalla finestra e raggiungendo il muro dell’appartamento di fronte, la donna incontra un dimorante dello stesso stabile, l’annunciatore radiofonico dell’ EIAR Gabriele (Marcello Mastroianni), omosessuale, quindi reietto da un regime che coltiva, tra l’altro, il culto dell’ideologia machista, “l’uomo deve essere marito, padre e soldato”. 

(Movieplayer)

Il nostro non rientra in nessuna delle tre categorie, per cui, oramai licenziato e costretto a tirare avanti con l’invio di pubblicità per corrispondenza, l’attende il confino, i carabinieri verranno a prelevarlo di lì a poco. Due persone diverse ma simili al contempo, che nell’arco di una giornata avranno modo di conoscersi e prendere consapevolezza delle rispettive individualità, quest’ultime soffocate dalla cappa opprimente di quanti intendono inculcare determinati parametri esistenziali, imprigionate ad uno stereotipo imposto da una mentalità becera e retriva. Diretto da Ettore Scola, che collaborò anche alla stesura della sceneggiatura insieme a Ruggero Maccari e Maurizio Costanzo, Una giornata particolare evidenzia tutta la poliedricità di un autore incline ad avallare tanto gli stilemi propri di  commedie intese ad analizzare, descrivere e rendere oggetto di satira le situazioni umane proprie di individui alle prese con le disillusioni  scatenate dai continui cambiamenti sociali, politici e culturali, quanto quelli inerenti ad opere in cui prevalgono toni intimistici e delicati tratteggi psicologici.

Sophia Loren (Movieplayer)

In tale ultimo ambito rientra appunto il film in analisi, che vede inoltre una ulteriore esaltazione della intensa complementarietà recitativa posta in scena dalla coppia Loren- Mastroianni, che aveva esordito nel 1954 in Peccato che sia una canaglia, per la regia di Alessandro Blasetti. Una casalinga ed un radiocronista che avranno modo di confrontare i loro comuni destini di persone umiliate e sopraffatte dagli eventi all’interno della storica data del 6 maggio 1938, giorno della visita di Adolf Hitler a Roma, uno di quei casi in cui la Storia entra di prepotenza nelle vicende individuali delle persone, trasformandone o arrivando a sopraffare ogni accadimento inerente alla sfera della propria esistenza, fino a ripercuotersi nella totalità dell’ ambito sociale.

Marcello Mastroianni (Movieplayer)

Quanto scritto è percepibile da noi spettatori in virtù della radiocronaca che racconta ogni particolare dell’evento, scandendo le ore della “giornata particolare”, ma soprattutto viene metaforizzato dall’avvio della narrazione con una sorta di prologo, un cinegiornale dell’epoca che descrive con i consueti toni trionfalistici e propagandistici l’arrivo del Fuhrer in Italia, cui segue un pregevole piano sequenza, che si sofferma  dapprima sull’esterno di un grande caseggiato romano, per poi introdurci al suo interno, l’appartamento di Antonietta. Inizialmente la sceneggiatura prevedeva, come si legge nel volume Ettore Scola. Uno sguardo ironico sull’Italia e gli italiani (Stefano Masi, Gremese Editore, 2006, Collana I grandi registi del cinema), sempre con Loren e Mastroianni protagonisti, un’ ambientazione negli anni ’70, offrendo spazio alla figura di una casalinga, sopraffatta dai lavori domestici e dalle angherie del marito, che la trascurava preferendole le partite di calcio in televisione e soprattutto dedicarsi all’amante.

Una donna, quindi, destinata a restare al di fuori dei grandi cambiamenti sociali ormai prossimi a venire. In seguito gli sceneggiatori decisero di collocare la narrazione all’interno di un preciso periodo storico, gli anni della dittatura fascista, dove maschilismo e patriarcato erano praticamente imposti per legge, considerando come si chiedesse alle donne nient’altro che essere eccellenti fattrici, idonee a generare figli da offrire alla patria, anche in previsione di un “premio natalità” una volta partorito il settimo figlio, pur riconoscendone la necessità lavorativa (da un punto di vista essenzialmente economico, costituendo manodopera a basso costo). Altra felice intuizione fu quella di affiancare alla figura femminile quella di un omosessuale, categoria oggetto di oppressione da parte del regime, andando quindi a modificare radicalmente l’immagine di un attore come Mastroianni, simbolo di mascolinità latina.

Loren e Mastroianni (Di Johnny Freak – scatto di scena, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=5428635)

Trasformazione d’altronde già avvenuta ne Il bell’Antonio (Mauro Bolognini, 1960, dall’omonimo romanzo di Vitaliano Brancati, 1949) e in un film sempre di Scola, Dramma della gelosia. Tutti i particolari in cronaca, 1970, dove, andando ad impersonare il muratore Oreste Nardi, appariva sovrappeso, coi denti cariati e le dita martoriate dal lavoro di mazza e cazzuola. Stesso destino toccò alla Loren, reduce dai successi hollywoodiani e quindi dedita al culto della propria immagine. Se già ne La ciociara di Vittorio De Sica (1960) l’attrice appariva in abiti dimessi, qui la trasformazione fu ancora più radicale: capelli arruffati, un vestito che ha certo conosciuto tempi migliori, niente trucco, ciabatte e calze smagliate, il tutto a rendere idoneo ritratto di una donna a cui la vita ha chiesto tante, troppe, volte il sacrificio della propria femminilità.

Di grande  rilievo, oltre alla magnificenza delle interpretazioni attoriali, di rara intensità ed autenticità, l’afflato visivo proprio del film: Scola voleva che tutto apparisse ingrigito, sottotono, così da richiamare quello che molti di noi conoscono del periodo rappresentato attraverso documentari, fotografie, cinegiornali, ovviamente in bianco e nero. Ma, soprattutto, l’intenzione era quella di rendere in via di metafora la cappa opprimente propria del regime, soffocante l’individualità delle persone nell’inculcare determinati parametri comportamentali. Ecco allora lo scenografo Luciano Ricceri adoperarsi nell’utilizzo di un arredamento dai colori piatti, smorti, al pari del costumista Enrico Sabatini, lavori entrambi esaltati  dal direttore della fotografia Pasqualino De Santis, che utilizzò dei particolari filtri per sottrarre al colore le tonalità più vivaci.

(Di Johnny Freak – scatto di scena, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=5428636)

La storia si svolge nell’arco di una giornata, dall’alba al tramonto, nello spazio chiuso degli appartamenti di Antonietta e Gabriele, le cui finestre non a caso sono speculari, riflettendo quello che avviene tra di loro nel prendere contatto soprattutto attraverso lo sguardo, fino ad assumere coscienza di una identica condizione di imposta sottomissione. Scola movimenta la narrazione con le entrate e le uscite dalle rispettive abitazioni dei personaggi o i loro spostamenti dalle scale verso il terrazzo e viceversa.  Antonietta e Gabriele sono due figure la cui sofferenza si esprime attraverso il silenzio e pochi gesti (lo sguardo mesto e assertivo di lei, le braccia serrate intorno ai fianchi di lui),  ma se il secondo ha preso già da tempo coscienza della propria individualità di persona, per la prima avverrà invece una sorta di rinascita.

Purtroppo quella timida spinta verso l’autodeterminazione ed una possibile emancipazione verrà soffocata dal ritorno alla vita di sempre, con il marito tornato trionfante dalla parata pronto a mettere in cantiere il settimo figlio ed assicurarsi così l’agognato premio governativo. Antonietta ha comunque vissuto la sua “giornata particolare”, all’insegna di una libertà a lungo repressa, un po’, citando quanto scritto da molti al tempo dell’uscita del film,  come quel merlo che nel corso della narrazione vediamo volare via dalla gabbia per poi farvi ritorno. E anche se nel chiudere la narrazione il buio sembra coprire ogni cosa, mentre la colonna sonora di Armando Trovajoli  sfuma le note di una rumba verso toni malinconici, nulla ci vieta di andare oltre quell’oscurità e immaginare Antonietta in fila per poter finalmente esprimere il proprio diritto di voto (riconosciuto alle donne italiane l’1 febbraio 1945), a livello nazionale, nella fatidica data del 2 giugno 1946.

Uno dei primi passi intesi ad annientare definitivamente qualsivoglia negatività intesa ad impedire la possibilità di scegliere, con sempre maggior forza e convinzione, nell’unità d’intenti tra uomini e donne, la propria essenza vitale, individuale, sociale e lavorativa. Ed egualmente può scriversi per Gabriele, libero di esprimersi in una società dove la banalità della cosiddetta “normalità” possa essere soppiantata  dalla manifestazione diversificante rappresentata dalla nostra insita potenzialità a scegliere liberamente l’appagamento esistenziale che più ci aggrada. Purtroppo la realtà di ogni giorno ci dimostra come i tanti cambiamenti e  i sacrosanti diritti acquisiti nel corso degli anni a suon di fervide battaglie sociali siano ancora oggetto di discussione quando non di repressione, tacita o meno. E allora ecco tornare quel buio e quelle note malinconiche, in nome di un passato che rischia di divenire futuro.

(Rielaborazione del testo redatto per il mio intervento del 6 marzo nell’ambito della rassegna cinematografica Giovedì Film Club (e un venerdì), svoltasi all’ex Convento dei Minimi di Roccella Jonica (RC) dal 27 febbraio al 28 marzo)

Immagine di copertina: Sophia Loren e Marcello Mastroianni (Movieplayer)

Testo consultato per la redazione dell’articolo: Ettore Scola. Uno sguardo ironico sull’Italia e gli italiani (Stefano Masi, Gremese Editore, 2006, Collana I grandi registi del cinema)

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