
Novembre 1943. La giovane Rosa Sauer (Elisa Schlott), dopo la morte della madre nel corso di un bombardamento, dalla città di Berlino si reca al villaggio di Gross-Partsch, nella Prussia orientale, così da trovare ospitalità presso i suoceri, Herta (Esther Gemsch) e Joseph (Jürgen Wink). É quanto le aveva suggerito il marito Gregor, combattente sul fronte russo, ormai lontano da qualche anno, ove si fosse imbattuta in condizioni di pericolo o difficoltà. Rosa, che ha lasciato il suo impiego di segretaria, è pronta ad adattarsi alla nuova vita, non ha certo intenzione di tirarsi indietro nel contribuire a tirare avanti, anzi. Una mattina, però, i militi delle SS irrompono nell’abitazione, prelevando Rosa con la forza e conducendola, insieme ad altre sei donne, nella caserma di Krausendorf, poco distante dalla Wolfsschanze, la Tana del Lupo, a Rastenburg, uno dei quartieri generali del Führer, Adolf Hitler.
Rosa, Elfriede (Alma Hasun), Leni (Emma Falck), Heike (Olga Von Luckwald), Ulla (Berit Vander), Sabine (Kriemhild Hamann) e Augustine (Thea Rasche) non credono ai loro occhi: una tavola imbandita con varie pietanze a disposizione per ciascuna e l’ordine impartito ad alta voce di mettersi a mangiare. Ma l’appagamento di poter finalmente placare i morsi della fame con dei cibi raffinati e succulenti, non certo le scialbe minestre di patate e altre verdure messe su con quanto può offrire la coltivazione della terra, combinando il pranzo con la cena quando va bene, troverà presto la sua mortificazione. Le donne, infatti, tedesche di sana e robusta costituzione, sono state selezionate per assaggiare i piatti destinati ad Hitler, timoroso di un possibile attentato nei suoi confronti…

Presentato in anteprima alla sedicesima edizione del Bari Film Festival, Le assaggiatrici, diretto da Silvio Soldini, si basa sull’omonimo romanzo di Rosella Postorino, edito da Feltrinelli nel 2018, che a sua volta traeva ispirazione da una storia vera, resa nota da Margot Wölk solo nel 2012, a 95 anni, poco prima di morire, ovvero di come, venticinquenne, venne costretta, insieme ad altre quindici donne, a fare da cavia per il Führer, assaggiando le pietanze per lui cucinate. La sceneggiatura, opera dello stesso regista insieme a Doriana Leondeff, Lucio Ricca, Cristina Comencini, Giulia Calenda, Ilaria Macchia, segue per buona parte la scrittura d’origine, riassumendo e condensando.
In particolare viene messo da parte l’io narrante, facendo sì che il tormento di Rosa, la sua lotta per la salvaguardia di un minimo istinto vitale che la salvi dallo squallore orripilante di un conflitto lontano, ma le cui conseguenze non possono fare a meno di ripercuotersi nella vita di ogni giorno, a partire dalla notizia del marito disperso, vada ad intersecarsi con le vicende delle altre compagne di sventura, ognuna con un passato ed un presente da gestire, tra dolore e rassegnazione. Ciò che preme a Soldini, riporto la mia primaria sensazione, è circoscrivere nella cornice di un mondo a sé stante, delimitato da pochi ambienti tra interno ed esterno (la stanza da pranzo, il cortile della caserma, l’abitazione dei suoceri di Rosa, il vicino lago, il fienile), quanto andrà a svilupparsi in tema di solidarietà, ma anche diffidenza reciproca, tra le sette donne, diverse per carattere ed estrazione sociale, costrette alla condivisione della condizione di cavie umane nell’arco di un anno, nel succedersi delle stagioni e degli eventi.

La sinergia tra fotografia (Renato Berta), costumi (Marina Roberti) e scenografia (Paola Bizzarri), avvolge la narrazione in una tonalità grigio-bluastra che sembra trarre origine dalle divise dei soldati delle SS ed ammantare ogni cosa di una tonalità opprimente, intesa a soffocare ogni refolo di vitale individualità, come quella che spinge Rosa tra le braccia dell’ufficiale Albert Ziegler (Max Riemelt), col quale la donna intreccerà una relazione all’insegna della passione pura e semplice, un’istintività da assecondare irrazionalmente, almeno fino a quando non verrà a conoscenza a quali ordini il milite abbia dovuto dare esecuzione, per cui il senso di colpa andrà infine a prendere il sopravvento sulla voglia di continuare a sentirsi corporalmente viva, ancora capace di dare e ricevere passionalità pulsante.
La congiunzione, e al contempo punto di rottura, tra storie individuali e Storia quale accadimento esterno avverrà nel momento in cui Hitler sarà vittima di un attentato dinamitardo, il 20 luglio 1944, all’interno della citata Tana del Lupo (evento noto come Operazione Valchiria), cui scamperà, un salvataggio in virtù del quale si sentirà investito di un compito divino affidatogli dalla provvidenza (lascito ricevuto in eredità, cronaca recente, da un noto tycoon americano prestato alla politica). Nel rimarcare la resa funzionale della congiunzione tra montaggio (Carlotta Cristiani, Giorgio Garini) e colonna sonora (Mauro Pagani), credo sia da evidenziare anche come Soldini restringa le inquadrature sui volti, insistendo su riprese frontali intese a riportare emozionalità evidenti e sottese, valorizzando le ottime interpretazioni attoriali (Elisa Schlott in particolare, per l’intensità riversata anche nelle struggente suggestione dello sguardo).
Inoltre si va in tal guisa a metaforizzare quel citato sentore opprimente, avvolgente ed omologante, da cui se ne verrà fuori solo una volta preso contatto con la realtà esterna. Quest’ultima andrà a restituire quella complicità verso determinati crimini cui si è cercato di ovviare forse tardivamente, come evidenziato dall’ultima inquadratura, un fermo immagine sulle mani lorde del sangue innocente di una vittima resa tale da un regime che avalla la barbarie conseguente all’aderire ad un vacuo assolutismo ideologico. In nome di quest’ultimo, ieri come oggi, ogni malessere sociale, sovente reso tale dall’impotenza gestionale di quanti avrebbero possibilità di porvi rimedio, richiede un capro espiatorio al quale addossare le proprie colpe, la mancata assunzione delle debite responsabilità.

Girato in lingua tedesca, rigoroso ed essenziale nella resa scenica, Le assaggiatrici, ad avviso del vostro amichevole cinefilo di quartiere, è un film certamente da vedere, così come è assolutamente da leggere il romanzo da cui è tratto, non tanto o, meglio, non solo, per dare vita ad un sempre utile confronto tra pagina scritta e la sua visualizzazione, ma per riflettere su un episodio poco conosciuto relativo al Secondo Conflitto, ulteriore testimonianza di quanto la guerra possa andare ad influire sul destino delle persone, compromettendone bisogni ed interessi, fino a quando vincitori e vinti non si ritroveranno entrambi immolati sull’altare di una evidente sconfitta, innalzato sulle fumanti macerie dell’umanità perduta.






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