
Presentato in anteprima alla XXI Edizione delle Giornate degli Autori, sezione Notti Veneziane, nell’ambito della 81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, L’occhio della gallina, diretto da Antonietta De Lillo, anche autrice della sceneggiatura insieme a Laura Sabatino e con la collaborazione di Alice Mariani, si palesa alla visione come una realizzazione certo particolare nel combinare tra di loro elementi inerenti al cinema del reale con quelli propri di un’opera di finzione. Nel corso della narrazione si vanno infatti ad intersecare, abbracciando l’idea di un continuo divenire, passato e presente, nel ricorso ora alla ricostruzione filmica, ora alla proposizione di materiale d’archivio (interviste, filmati inerenti la vita pubblica e privata della regista), dando vita ad una costruzione complessiva che dal personale mutua efficacemente verso l’universale.
Le vicende giudiziarie conseguenti alla deficitaria distribuzione del suo film Il resto di niente, adattamento dell’omonimo romanzo di Enzo Striano (1986), presentato nel 2004, Fuori Concorso, alla 61ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e ben accolto dalla critica, così come l’ostracismo rivoltole riguardo la produzione di opere successive, nella loro ricostruita visualizzazione si rivelano utili a ridefinire l’immagine del cinema nella sua concretezza realizzativa, le difficoltà che sorgono al riguardo causa appunto problemi distributivi, quando non relativi a mancati o poco oculati finanziamenti, come ha ricordato, tra l’altro, Pupi Avati alla 70ma edizione dei David di Donatello, polvere sotto il tappeto dello scintillio e del divismo che vanno ad allestire la classica “bella confezione”.

La narrazione prende il via all’interno di uno studio di ripresa, il luogo generalmente deputato a far sì che quanto delineato nell’ambito della sceneggiatura prenda mano a mano la forma di una concreta visualizzazione, in virtù dell’apporto sinergico di varie maestranze. Ecco sostanziarsi i ricordi inerenti al percorso artistico della regista, la laurea in Spettacolo al DAMS dell’Università di Bologna, gli inizi come fotografa (“la fotografia è la porta che si è aperta verso me stessa”), che le diedero la possibilità di entrare in contatto tanto con le persone quanto con le notizie, i vari accadimenti, dando adito alla volontà di raccontare, da esternare quest’ultima in particolare nei riguardi “di coloro che non si vedono, di quelli che non sono mai stati raccontati”.
Una volta incontrato Giorgio Magliulo, giovane operatore della RAI, De Lillo vi condivise “la voglia di capire come fare cinema”, desiderio che portò alla realizzazione nel 1986 del loro film d’esordio, Una casa in bilico, cui venne conferito il Nastro d’Argento come Miglior Opera Prima. I vari ricordi, visualizzati anche in immagini d’archivio o filmini d’epoca, trovano poi il loro fulcro portante nell’intervista a Maria de Medeiros, protagonista del citato Il resto di niente, nei panni della nobile portoghese Eleonora Pimentel Fonseca, trasferitasi a Napoli con la famiglia e destinata a divenire tra i maggiori esponenti dei giacobini partenopei nel corso dei moti rivoluzionari che interessarono la città tra il 1798 e il 1799, anno quest’ultimo in cui trovò la morte, impiccata su ordine di Ferdinando IV di Borbone.
Si viene infatti a creare un suggestivo parallelismo tra arte, vita e le vicende storiche inerenti alla nobildonna, in quanto il suo processo e la sua condanna vanno a trovare coincidenza con quanto vissuto sulla propria pelle dalle due artiste (Maria de Medeiros è anche regista), la diffidenza avvertita attraverso le reciproche esperienze all’interno di un settore ritenuto, come tante altre professioni, territorio esclusivamente maschile, tra pregiudizi, imposizioni produttive, scarso spirito collaborativo. Il percorso per emergere sarà allora tracciato dalla passione, dalla voglia di mettere in scena una storia, un vissuto particolare, determinate esperienze di vita, prediligendo differenti toni, quali l’ironia, il dramma, la satira, il sentimento, quando non la denuncia sociale, itinerario che nelle sue molteplici tappe andrà a coincidere con l’affermazione definitiva di sé.

Antonietta De Lillo non si è mai data per vinta, ha messo su una società di produzione, realizzando vari progetti, tra i quali risalta quello del “film partecipato”. Con L’occhio della gallina ha inteso far sì che la volontà di non arrendersi, di procedere sempre e comunque “in direzione ostinata e contraria”, citando De André, assumesse un generale invito alla resistenza contro qualsivoglia esternazione manipolatrice o soverchiante, mantenendo alta la bandiera della libertà critica inerente al proprio pensiero, diritto d’altra parte consacrato nella nostra Costituzione, Art. 21, nella previsione anche di specifici limiti applicativi.
La cineasta si avvale inoltre del diritto acquisito di una “visione altra”, quella esternata con disarmante ironia nel titolo del docufilm: la gallina infatti, e ne vediamo una girare all’interno dello studio di produzione ed interagire con la protagonista, non solo chiude l’occhio, diversamente da noi umani, dal basso verso l’alto, ma gode di una vista che può vantare maggiore contrasto, luminosità e sensibilità nell’osservare il mondo che la circonda. Quanto basta per continuare a resistere ed esistere, lavorando e dialogando perché il cinema mantenga la propria forza di sogno condiviso ma anche di emblema culturale e strumento socio-politico, ovviando alle disfunzioni inerenti ad un sistema incapace di valorizzarne la portata indubbiamente impattante, tra logiche di supremazia e fallace senso di appartenenza, che deviano colpevolmente dall’idea di cultura quale bene condiviso.
Immagine di copertina: Antonietta De Lillo e Maria de Medeiros (Ufficio Stampa)






Lascia un commento