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Waxahachie, Texas, Stati Uniti d’America, 1935, domenica pomeriggio. Lo spettro della Grande Depressione aleggia oramai in ogni dove, anche se la profonda crisi economica non sembra colpire tutti in egual misura. Vi è infatti chi è costretto a vivere in auto, avendo perso ogni bene e chi, invece, riesce ancora a mantenere un’esistenza dignitosa, come la famiglia Spalding, Edna (Sally Field), casalinga, il marito Royce (Ray Baker), locale sceriffo, i due figli, Frank (Yankton Hatten) e Possum (Gennie James). Riuniti attorno al desco,  ringraziano il Signore per il cibo che si accingono a consumare, quando viene comunicato a Royce di recarsi immediatamente allo scalo ferroviario, dove un ragazzino di colore, Wylie (De’voreaux White), ubriaco e pistola in pugno, sta sparando a casaccio. Pensando di aver esaurito le pallottole, il giovane punta l’arma verso lo sceriffo appena giunto sul posto, uccidendolo.

Nel tacito avallo del biblico  “occhio per occhio, dente per dente”, Wylie verrà linciato da una folla furiosa ed impiccato ad un albero, non prima di essere trascinato, legato ad un camion, fino alla dimora di Royce. Edna, in preda allo sconforto, realizza subito di doversi farsi carico del sostentamento della famiglia, anche considerando il debito contratto dal marito con la banca, ancora da estinguere, un prestito per poter acquistare casa e terreno. Considerando la gravità della situazione, la donna rischia di perdere non solo la proprietà ma anche l’affidamento dei figli, forse non è del tutto peregrina l’idea prospettale da tale Moses Hander (Danny Glover), un vagabondo di colore cui Edna ha offerto cibo e temporanea ospitalità, ovvero mettere su una piantagione di cotone…

Scritto e diretto da Robert Benton, che ci ha lasciato lo scorso 11 maggio, Places in the Heart rappresenta, ad avviso del vostro amichevole cinefilo di quartiere, la sua realizzazione più riuscita in qualità di regista, soprattutto considerandone il felice connubio tra un ottimo lavoro di scrittura ed una regia piuttosto solida, idonea a circoscrivere con “classica” efficacia i personaggi e i loro comportamenti, nonché accadimenti e situazioni. La sceneggiatura, nella sua liricità, appare infatti densa di richiami autobiografici (Waxahachie diede i natali a Benton, che si rifà nella narrazione ai ricordi della nonna) e letterari, autori americani in particolare, ma anche il Victor Hugo de I miserabili, vedi il furto delle posate d’argento da parte di Moses cui non segue la denuncia di Edna, ma soprattutto il senso di dannazione sociale imposto da leggi e costumi, inferno sulla Terra che aggiunge “una fatalità umana al destino che è divino”, cui contrapporre carità e misericordia attivamente cristiane.

Riguardo poi la regia, esaltata dalla fotografia naturalistica di Néstor Almendros, asseconda il citato fluire lirico offrendo particolare risalto tanto alle interpretazioni attoriali dei protagonisti quanto a quelle di personaggi in apparenza secondari le cui vicende vanno ad estendersi in una  serie di sottotrame e contribuiscono efficacemente ad offrire visualizzazione a determinati aspetti della provincia americana, vedi il tradimento perpetrato dal marito di Margaret (Lindsay Crouse), sorella di Edna, o la carità pelosa esternata dal banchiere Albert Denby  (Lane Smith) nel proporre ad Edna quale affittuario il cognato Will (John Malkovich), non vedente.

Quest’ultimo andrà a costituire un particolare trio di reietti sociali, unendosi alla vedova in cattive acque, da abbindolare ed instradare in un determinato percorso di esclusione lastricato di pregiudizi e tracotanza, ottimamente resa da Sally Field tra dolore rappreso e rabbia silente e al vagabondo di colore senza arte né parte, l’uomo spuntato dal nulla quale sorta di angelo salvatore, ad ispirare determinazione e costanza, anche se alla fine sarà proprio Edna a suggellare la svolta definitiva, dando adito alla indomita volontà di non arrendersi, così da salvaguardare la propria dignità e quella dei propri cari.  

Nell’evidenziare le tante avversità che Edna, la sua famiglia, quanti le sono vicino, si trovano ad affrontare, tra problemi finanziari, difficoltà quotidiane (l’educazione dei figli; l’attività violenta del Ku Klux Klan a dare corpo al razzismo sotteso), avversità meteorologiche (il violento abbattersi di un tornado sulla cittadina), così come le vicissitudini degli altri abitanti di Waxahachie, la narrazione rimarca sì un costante affidamento al volere divino, all’idea di Provvidenza in varie forme esternata, ma soprattutto sottolinea la portata reale del concetto di carità cristianamente inteso.

Non si tratta di quella esteriorizzata dai consueti baciapile o sepolcri imbiancati d’evangelica memoria, bensì di una concreta misericordia, incline ad avallare l’idea del prossimo quale proiezione di sé, esprimente una personale diversità da accogliere e condividere, in nome di una portante eguaglianza. Quanto scritto trova esaltazione nel bellissimo finale, dove tutta la popolazione è riunita nella chiesa del paese, il cui campanile ha svolto la funzione di contrappunto narrativo sin dalla sequenza d’apertura. Tra le pareti risuonano, mentre il coro intona un inno sacro, le parole del sacerdote, intento a leggere la Lettera di San Paolo ai Corinzi, 1 .13:

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,  non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità.  Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine”.

La macchina da presa si muove tra i banchi, morti e vivi, uccisori e uccisi, offensori e offesi, celebrano la Comunione, la “pace di Dio” si palesa in un’aura onirica di avvolgente speranza. Places in the Heart  ebbe la sua anteprima al 35mo Festival Internazionale del Cinema di Berlino, vincendo l’ Orso d’Argento per la Miglior Regia. Conseguì poi sette candidature alla 57ma edizione degli Academy Awards, Miglior Film, Miglior Attrice Protagonista (Sally Field), Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Regista, Miglior Attore e Miglior Attrice non Protagonista (John Malkovich, Lindsay Crouse), Migliori Costumi (Ann Roth), ottenendo due statuette (Miglior Attrice Protagonista e Miglior Sceneggiatura Originale).

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