
C’era una volta nel caro paesello natio, il luogo di ritrovo per eccellenza, prevalentemente ma non esclusivamente maschile, un bar che già dall’insegna ti avvisava di aver conosciuto tempi migliori. Si trovava poco distante dalla piazza principale, della quale condivideva l’affaccio con un locale concorrente. All’interno ecco la cassa, il bancone, i boeri in bella vista, una esposizione di paste da troppo tempo esemplare unico, il juke-box, il flipper, uno scassato calcio-balilla e, volgendo lo sguardo in su, un ventilatore le cui pale dall’inesorabile lentezza rendevano, quantomeno, la certezza di spostare l’aria calda da un angolo all’altro … A corredo di tutto ciò, una variopinta umanità, in composito miscuglio: gli accaniti giocatori di carte, i vecchietti catarrosi, i soliti perdigiorno a cazzeggiare del più e del meno, con qualcuno a primeggiare nella qualità di esperto di tutto lo scibile umano e forse di più, o, in guisa di impagabile viveur, dedito a narrare notti che hanno conosciuto sesso da urlo, almeno in virtù di una fervida fantasia …
Un italico microcosmo provinciale che veniva descritto, facendo leva su un umorismo piuttosto marcato e toni surreali che tingevano le pagine di felici voli pindarici, da Stefano Benni, morto qualche giorno addietro, nel suo romanzo d’esordio, Bar Sport, 1976, una raccolta di racconti scritti nel 1970 per Il Mago, riedita da Feltrinelli. Attingendo dai ricordi di vita vissuta tra Bologna e provincia, risaltava l’indubbia capacità dell’autore di far sì che, per il tramite di una prosa incisiva e suadente, dai più minuti particolari di questo “piccolo mondo antico” e dalle gesta dei suoi componenti si arrivasse all’universalità del mondo tout court, lanciando un ponte tra sogno e realtà, fatto della stessa materia di cui sono fatte le quotidiane ambasce, parafrasando Shakespeare.
Una estrema varietà di esseri umani e conseguenti caratteri, uniti nel girotondo della vita da medesime caratteristiche, vezzi, idiosincrasie, amori e paure. A 14 anni di distanza dalla visione in sala, che non mi aveva entusiasmato, ho voluto rivedere su RaiPlay la trasposizione cinematografica della citata opera d’esordio, così da constatare se il tempo trascorso si fosse rivelato, come da tradizione, galantuomo. Intendevo, poi, ridare vitalità all’amena storiella che pare circoli in quel di Hollywood sin dall’età d’oro, offrendosi a varie interpretazioni e comunque sempre interessante e significativa, almeno a mio avviso: due capre sono intente a “gustare” la bobina di un film tratto da un best-seller. Dopo il “lauto pranzo”, una dice all’altra: “personalmente preferisco il libro”.
Anche la recente visione mi fa propendere per l’assecondare il parere della capretta di cui sopra, perché, forse oggi più di ieri, la sceneggiatura di Nicola Alvau, Giannandrea Pecorelli, Michele Pellegrini e Massimo Martelli, quest’ultimo regista del film, si rivela già dalle prime sequenze fin troppo legata alla pagina scritta. Situazioni e personaggi appaiono trasferiti dalla carta sullo schermo senza alcuna mediazione stilistica, affidandosi alla simpatia degli interpreti e, in generale, alla bontà delle loro interpretazioni, sfruttando quell’integrazione già collaudata sui palchi del cabaret o degli spettacoli televisivi del tempo da esso derivati.
A fare da collante tra le varie vicende, la voce narrante di Antonio (Giuseppe Battiston), titolare del Bar Sport, detto Onassis per la sua misurata prodigalità, Il Tennico (Claudio Bisio), esperto di tutto e conoscitore del nulla, l’elettricista Bovinelli (Antonio Cornacchione), stralunato pasticcione, il Muzzi (Antonio Catania), dispensatore di salaci considerazioni, il candido Cocosecco (Bob Messini), la procace cassiera Clara (Aura Rolenzetti), Elvira lire tremila (Roberta Lena). La regia, per quanto sobria ed efficace nel ritrarre la vita di provincia degli anni ’70, appare spesso poco incisiva, limitandosi ad assecondare una reiterazione di sketch alla lunga stancante, non riuscendo quindi a conferire congrua dimensione cinematografica alla sapida levità propria di Benni e soprattutto alla sua trainante affabulazione.
Quest’ultima è resa solo a tratti, in particolare grazie alle iperboliche narrazioni sportive del tennico interpretato con efficace aderenza da Bisio (le gesta del calciatore Piva o il giro ciclistico Lisbona-Leningrado), i cui toni surreali trovano opportuna visualizzazione grazie alle animazioni opera di Giuseppe Laganà, nel complesso efficaci nella loro comunque suggestiva semplicità. Forse avrebbe meritato identico trattamento animato la mitica Luisona, dolce giurassico dalla granella in duralluminio, che qui non assurge al mito, resta una semplice pasta dalle curiose caratteristiche e dal vindice effetto lassativo per chi, magari forestiero, si avventurerà nel cibarsene.
Anche la visione di queste ultime ore mi ha quindi confermato come Bar Sport sia una realizzazione che può divertire, a tratti, incline ad un certo garbo complessivo nella messa in scena (effetti dell’ingestione della citata Luisona a parte), anche se, forse per la coreografica presenza delle due perfide vecchine commentatrici sullo sfondo (le brave Angela Finocchiaro e Lunetta Savino), che mi hanno ricordato i due vecchietti brontoloni Statler e Waldorf, alla fin fine è come se avessi assistito ad una puntata in salsa nostrana del Muppet Show. Una serie di amenità e gesta bislacche resa da un cast di pupazzi animati, un semplice filmato-raccolta di battute e situazioni da risata estemporanea, così vicina ma anche così lontana dalla felice ispirazione della pagina scritta d’origine.
Un film che in definitiva, insieme ad altre pellicole del periodo, si rende testimone di una certa fossilizzazione dell’italica commedia, prima del rilancio, non sempre contornato dalla definitività, di questi ultimi anni, che sembra aver preso le distanze dal “pronto cuoci” dell’intrattenimento generalizzato.
(Revisione ed approfondimento dell’articolo pubblicato in data 01/11/2011; immagine di copertina: Movieplayer)





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