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Titolo di apertura alla XX Festa del Cinema di Roma, dove è stato presentato, fuori concorso, nella sezione Grand Public, La vita va così vede il regista Riccardo Milani, anche sceneggiatore insieme a Michele Astori, prendere ispirazione da una storia vera, quella del pastore sardo Ovidio Marras, che nei primi anni Duemila si oppose caparbiamente, rifiutando offerte sempre più alte, alla costruzione di un imponente resort a Capo Malfatano, nei pressi della sua casa ovile (furriadroxiu), ad opera di un gruppo d’imprenditori immobiliari. Viene dunque resa cinematograficamente una narrazione intrisa di resistenza e di restanza, sorta d’ideale prosecuzione di quanto già delineato dagli stessi autori nel precedente, e più riuscito, Un mondo a parte, solcando sempre e comunque la scia di una personale visione dell’italica commedia, trasmutata nella forma di “favola gentile”.

Gli stilemi contenutistici si rifanno, dichiaratamente, alle nostrane produzioni degli anni ’70, quando nel citato genere il sorriso andava a prendere una piega sempre più amara, nella prevalenza della disillusione nel constatare quanto determinati ideali fossero destinati ad infrangersi sugli scogli di una società in repentino cambiamento (“Credevamo di cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi”, il Nicola, Stefano Satta Flores, di C’eravamo tanto amati, Ettore Scola, 1974). Nel corso della visione, però, non ho potuto fare a meno di constatare come Milani, nel volgere uno sguardo comunque acuto e puntuale sulla realtà, abbia qui errato il dosaggio, personale sensazione,  nel consueto impiego della combinazione, “agitata non mescolata”, d’ ironia e disamina sociale, da lui solitamente preferita in luogo di quella satira cinica e amara propria delle nominate realizzazioni “classiche”.

Giuseppe Ignazio Loi e Virginia Raffaele (Movieplayer)

La vita va così, quindi, mi ha intrigato, a tratti, più per le modalità registiche e meno per la bontà della scrittura. Riguardo le prime, ho trovato valida e funzionale al narrato la contrapposizione tra “la stanza dei bottoni” in quel di Milano, nell’ostentazione anche di una certa agiatezza esistenziale, e l’asperità del territorio sardo, il paese di Bellesamanna (immaginario, le riprese hanno interessato principalmente la spiaggia di Tuerredda, a Teulada, nella costa sud-occidentale dell’isola),comunque accogliente nella sua austera semplicità e nel suo adattarsi, alternando difficoltà e orgoglio, a determinate condizioni di vita. La sceneggiatura, invece, mi è parsa, in particolare nella prima parte, fin troppo ripetitiva e didascalica nel cadenzare la ciclicità degli accadimenti o nel reiterare il riproporsi di determinate situazioni.

Non mi hanno poi del tutto convinto le interpretazioni attoriali di Virginia Raffaele, a mio avviso un po’ in affanno nel dare adito al tormento interiore di una donna, Francesca, la figlia del pastore resistente, indecisa tra il difendere le tradizioni o accettare supinamente il “nuovo che avanza” e, soprattutto, di Aldo Baglio nei panni del capo cantiere Mariano, la cui esagitazione macchiettistica mi è sembrata fuori luogo, non in sintonia col mutare progressivo proprio di chi arriverà a comprendere intimamente le ragioni del “gran rifiuto”. Ho apprezzato invece l’understatement espresso da Diego Abatantuono nell’interpretare l’imprenditore milanese Giacomo, inizialmente rapace e senza scrupoli, per poi andare ad intuire come non tutto sia comperabile col danaro, a partire dalla personale dignità.

Diego Abatantuono (Movieplayer)

Egualmente posso scrivere per la resa recitativa di Geppi Cucciari nei panni di Giovanna, giudice dal fermo idealismo, per quanto nuoccia, in ambedue le interpretazioni, qualche banalizzazione retorica nei dialoghi. D’altra parte la struttura narrativa del film sembra reggersi per buona parte sulla figura di Efisio Mulas, interpretato con realistica immedesimazione dal pastore Giuseppe Ignazio Loi, 84enne di Terralba.

Lo vediamo dunque  opporsi strenuamente, con granitica saggezza, alle mire espansionistiche provenienti dal “continente”, proprie di quanti intendano calare dall’alto, timeo danaos et dona ferentes, un ideale di progresso valido per prospettare inedite occupazioni lavorative, ma che andrà a deturpare quelle bellezze naturali sulle quali bisognerebbe invece puntare, in autodeterminazione, per arrivare a creare un turismo consapevole ed una concreta tutela ambientale, non certo quella esteriorizzata da opportuni lavacri di coscienza (vedi l’impiego dell’auto elettrica da parte di Giacomo).

Si potrà così rinvenire idonea forza propulsiva nell’ambito di una ritrovata idea di comunità, che consideri le esigenze di tutti pur nella diversità di vedute ed intenti, superando quindi i confini limitanti della politica e dell’ideologia. Un’ “alternativa resistente” a quanto posto in essere nel sostenere un progresso non sempre evolutivo, orfano di una tutela della diversità quale fondante arricchimento, tale da tutelare e porre in essere la propria più intima essenza, finalmente rivestita di una naturale umanità.

 La vita va così, andando a concludere, alterna, non senza qualche stridore, speranza (il darsi da fare autodeterminato, come su scritto) e pessimismo (la figlia di Giacomo non seguirà la “redenzione” paterna, anzi), nel tentativo, riuscito in parte, di coniugare riflessione e “sano” intrattenimento. Rispetta comunque gli spettatori, considerando come non ceda alla sguaiataggine e ponga attenzione alla compostezza contenutistica e visuale, risultando nel complesso gradevole ma mai del tutto convincente nel coniugare l’ ironia con la drammaticità inerente ad una disamina sociale propriamente realistica.

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