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Riuscito trait d’union tra film di genere e d’impegno civile, La prima linea non merita certo le spesso pretestuose polemiche messe accuratamente in scena ancor prima della sua uscita, arrivando addirittura a parlare di “apologia del terrorismo”, solo perchè il soggetto del film si basa sul libro Miccia corta del terrorista Sergio Segio, come se non fosse lecito o comunque convenientemente etico raccontare un (triste) spaccato di storia italiana partendo dal punto di vista di un dissociato.

In realtà, grazie all’ottima sceneggiatura (Sandro Petraglia, Ivan Cotroneo, Fidel Signorili), ad una regia (Renato De Maria) alquanto abile, che riesce ad imbastire una ricostruzione degli eventi sfalsando i piani temporali, alternando flashback, didascalie, immagini di repertorio e voci fuori campo, ed infine alla buona interpretazione di Giovanna Mezzogiorno e Riccardo Scamarcio, minimalista e trattenuta, il film si presenta come un’asciutta, tesa e rigorosa ricostruzione, stilistica e storica.

Come già scritto, il film scombina la cronologia degli eventi raccontati, partendo dalla cattura di Sergio (Scamarcio) nell’ 89, per poi tornare indietro all’ 82, quando questi e i suoi compagni organizzarono l’evasione di Susanna Ronconi (Mezzogiorno) e di altre tre donne dal carcere di Rovigo, un violento assalto con uso di esplosivo in cui rimase ucciso un pensionato, e, sempre procedendo a sbalzi, la nascita del movimento “Prima Linea” e il passaggio alla lotta armata, sull’assunto di essere eredi della resistenza e di una rivoluzione tradita, convinti che i movimenti eversivi di destra e i servizi segreti stessero preparando un colpo di Stato, spinti spesso da un odio accecante, che ha la meglio anche sulla storia d’amore tra Susanna e Sergio.

Il regista “pedina” i protagonisti, gli sta addosso insistendo con primissimi piani, evidenziando, con il necessario distacco a non farne dei martiri, il terribile vuoto in cui si trovano a vivere, totalmente avulsi dal contesto sociale e politico nel quale comunque sono cresciuti e con il quale si sono alimentati, sino ad arrivare all’ “atto di dolore” di Sergio (“avremmo dovuto credere nella forza della ragione e invece credemmo nella ragione della forza”) per un percorso ideologico portato alle estreme conseguenze e destinato a fallire: eloquenti al riguardo le immagini del funerale del giudice Alessandrini, con l’Italia tutta (dal Presidente Pertini alla classe operaia, passando per i sindacati o i commercianti che chiudono i negozi in segno di lutto) riunita intorno al feretro.

Il film si conclude con un’altra fase di Segio: “la mia responsabilità è politica, morale e giudiziaria, le assumo tutte e tre”, che certo non è sufficiente a colmare il dolore di tante, troppe, vite interrotte, degli affetti spezzati, ma, pur nei limiti di un distacco a volte eccessivo, programmaticamente volto ad inserire frasi ad effetto o puntuali prese di distanza, riesce a mettere in scena “il grande incubo” di quegli anni, l’assurdità elevata a ragione di un’ Italia che, nonostante pianga ancora i suoi morti e che non si arrende, fatica a trovare unità nel comune dolore.

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