Piero De Bernardi ci ha lasciati venerdì 8 gennaio, all’età di 84 anni: insieme all’amico Leo Benvenuti, con il quale ha lavorato quasi sempre in coppia, dando vita ad un fruttuoso sodalizio, ad Age e Scarpelli è stato uno tra i maggiori e prolifici scrittori del nostro cinema, riuscendo spesso a travalicare il genere specifico della commedia all’italiana, ma sempre nel segno della perfezione e della professionalità.
Per sua stessa definizione più narratore che scrittore, fece di questa caratteristica valenza e cifra stilistica, con circa 200 titoli all’attivo (debutta nel ’54,’adattando il romanzo di Vasco Pratolini Le ragazze di San Frediano, per la regia di Valerio Zurlini, per poi coprire man mano l’intera produzione della commedia) dei quali mi limito a ricordare solo quattro titoli, costituenti altrettanti passaggi verso un nuovo stile della classica commedia all’italiana, sia da un punto di vista registico che autorale.
Amici miei, ’75, derivato da un soggetto di Pietro Germi, che avrebbe dovuto dirigerlo ma che morì durante le riprese, spartiacque tra la classica commedia all’italiana degli anni cinquanta e sessanta e la forma definitiva e conclusiva che assumerà dagli anni settanta in poi, dove la critica all’arrivismo sociale, al facile benessere, venata da toni comici, cinici e grotteschi, con sullo sfondo la speranza di un mondo migliore, lascia ora il posto alla disillusione propria di chi non è riuscito a cambiare lo stato delle cose, trovando rifugio in un ristretto ed affiatato gruppo di amici, entusiasti complici nell’ assumere la goliardia come stile di vita, combattuti tra la tentazione di una normalità borghese e la voglia di mettere tutto in burla, portando sullo schermo la tradizione tutta toscana, con ascendenze letterarie, della beffa e dello scherno.
Il primo Fantozzi, per la regia del mai troppo compianto Luciano Salce, che libera il personaggio di Paolo Villaggio, innovativo per la sua cattiveria nei confronti del pubblico come di se stesso, dalla “gabbia” del piccolo schermo, permettendogli di dar vita ad una nuova maschera, l’italiano medio di “classe impiegatizia”, chino al potere e (quasi fieramente) meschino ed ossequioso.
Un sacco bello, esordio alla regia di Carlo Verdone, dopo le esperienze cabarettistiche e televisive, che grazie proprio all’apporto di De Bernardi e Benvenuti, riesce a dispiegare sul grande schermo le sue collaudate macchiette dandogli più spessore, elevandole a veri personaggi e conferendogli un tono dolce- amaro.
C’era una volta in America, che affranca Sergio Leone dagli spaghetti-western, per cimentarsi in un affascinante kolossal d’ampio respiro, dalla complessa struttura temporale ad incastri, con i temi della memoria e del tempo che passa, senza riuscire a mitigare le umane sofferenze.
Se ne va con De Bernardi un certo tipo di cinema, basato sulla scrittura scaturente da un attenta visione della realtà, spesso lungimirante e dai toni amaramente cinici ma straordinariamente veri, senza alcun compiacimento di sorta, un cinema che, in un epoca in cui anche per i film si parla di “prodotto” o di “confezione”, vive solo nei ricordi (con qualche felice eccezione, penso a Virzì e a Verdone), in fondo, a saperli e volerli contestualizzare, il sale della vita.





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