Come ho già scritto in altri articoli dedicati ai suoi film, Pietro Germi è un regista ancora in attesa di una sincera e cosciente riscoperta, ponendo fine a quella distanza con la critica dovuta, scelte ideologiche a parte, sia al suo carattere scontroso che al non seguire i consueti canoni estetici.
Preferiva infatti cimentarsi di volta in volta in generi diversi, seguendo estro ed intuito, sempre con mano ferma e grande capacità inventiva.

Nel 1962, con Divorzio all’italiana la sua verve moralista, la denuncia sociale e i toni polemici traslocano nella commedia, comprendendo che se ne potevano sfruttare le possibilità che forniva, eludere la censura (siamo in epoca democristiana) affrontando temi quali il divorzio e il “delitto d’onore”, al tempo previsto nel codice penale, e andare incontro al grande pubblico, caratterizzando il tutto con un sarcasmo acre e pungente.

Agromonte, Sicilia: il barone Fefè Cefalù (Marcello Mastroianni) vive in un antico palazzo con la moglie Rosalia (Daniela Rocca), petulante ed ossessiva, i genitori, e alcuni parenti che ne occupano un’ala, in seguito ad alcune dissolutezze economiche del padre.

Invaghitosi, ricambiato, della cugina 16enne Angela (Stefania Sandrelli), ordisce un astuto piano: spingere la moglie nelle braccia di un ex spasimante (Leopoldo Trieste), coglierli in flagrante adulterio e ucciderli, avvalendosi poi delle attenuanti previste dal codice per “il delitto d’onore” e coronare il suo sogno d’amore; pur tra varie complicazioni, tutto andrà secondo le previsioni, ma Fefè avrà ben poco da stare tranquillo riguardo la fedeltà della giovane moglie…

La vivace regia di Germi sfrutta a dovere una sceneggiatura (opera di Ennio de Concini e Alfredo Giannetti, oltre che dello stesso regista), premio Oscar 1963, ricca di trovate divertenti e argute sottolineature sulla mentalità propria dell’isola e del meridione in generale, con l’immaginario paese di Agromonte simbolo di tanti paesi del Sud.

La lentezza e la mollezza della vita di provincia, l’arretratezza dei costumi aggravata da un’imposizione culturale e politica particolarmente forte (l’invito del parroco, con un raffinato gioco di parole, a votare Dc; lo “scandalo” e il clamore suscitati dalla proiezione de La dolce vita ) vengono trattati con toni in costante equilibrio tra il pamphlet, il grottesco e la commedia di costume, emergendo a volte un clima da farsa che spinge sin troppo sui toni caricaturali, pur partendo da una situazione reale o quantomeno verosimile.

Superba l’interpretazione di Mastroianni, che capovolge il ruolo del Bell’Antonio di qualche anno prima (Bolognini, dal romanzo di Brancati), abbandona le sue pose malinconiche di laconico seduttore e, camaleontico, si trasforma in un pigro possidente, indolente sin dallo sguardo, ma pronto ad ogni machiavellica astuzia e con tic in crescendo, senza dimenticare la Rocca, attrice avvenente ma qui trasformata, sempre in nome dello stereotipo (enormi sopracciglia, peluria sul labbro), il mai troppo compianto Trieste, e la giovanissima Sandrelli, maliziosa e seducente.

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