Firenze. Tre giovani (nel significato “moderno” del termine), Irma (Paola Cortellesi), medico, Max (Luca Argentero), giornalista, Samuele (Paolo Ruffini), assistente di Diritto Penale, tutti precari, sono alle prese con la cocente frustrazione di vedere svanire la possibilità di un contratto definitivo, dopo anni di studi e sacrifici per materializzare aspirazioni e progetti, non accontentandosi di soluzioni di ripiego. Gli vengono infatti preferiti, rispettivamente, la fidanzata del primario, la figlia dell’editore, il genero di un barone universitario (Giorgio Albertazzi), tutti, ovviamente, con i loro alti meriti (e curriculum gonfiato ad hoc).
Ritrovatisi ad una riunione di ex compagni di liceo, i tre, stanchi di sopraffazioni ed abusi, si organizzeranno per dar vita ad una vera e propria rappresaglia, all’insegna dello stalking creativo, contro i colleghi raccomandati, oltre che tentare di organizzare un movimento, ma il sistema ha rodati meccanismi ed oliati ingranaggi per reagire … Grande pregio di questa ennesima commedia italiana, C’è chi dice no, è la ritrovata voglia del nostro cinema di portare sullo schermo, con il linguaggio che gli è tradizionalmente proprio, una benvenuta indignazione verso quelli che sono ormai veri e propri istituti endemici del nostro come di altri paesi, la raccomandazione e la sua deriva “più comprensibile”, la cosiddetta “segnalazione”.
Però, ancora una volta, pur apprezzando la valida regia (Giambattista Avellino), una sceneggiatura (Fabio Bonifacci) compatta e capace, pur cavalcando qualche luogo comune, di incisive sottolineature (la scena in cui emergono i vari taroccamenti nei concorsi d’accesso all’università, tra scambi di favori di ogni genere), tre protagonisti estremamente affiatati e convincenti nelle loro interpretazioni, oltre che indovinati personaggi di contorno (Albertazzi su tutti), non si può far a meno di notare come la felice intuizione iniziale si stemperi man mano nella mancanza di una forte connotazione, non riuscendo ad andare oltre a quello che ormai sembra essere divenuto un inevitabile cliché, imbastire un prodotto d’intrattenimento comunque valido e complessivamente riuscito.
Inutile (forse, comunque “c’è chi dice no”) fare confronti con il passato, pensare come avrebbero sfruttato un tema forte, d’impegno civile come questo, registi del calibro di Monicelli, Risi, Germi, ma non ci si può accontentare sempre e soltanto della bella confezione, perché alla lunga sembra di vedere lo stesso film.
Ci si sente vicino ai personaggi, grazie allo sfruttamento di un tema che ci riguarda un po’ tutti, si ride senza sensi di colpa, si soffre un po’ per una certa invadenza della musica, che fa tanto videoclip e fiction televisiva, e si finisce con il restare invischiati, quasi senza accorgersene, vista la mancanza di un vero e proprio lieto fine, nella solita melassa accomodante e giustificatrice, la pacca sulla spalla espressa dal “così fan tutti”, dell’essere comunque contenti del proprio gesto di ribellione espresso in quanto tale, con un accenno ad una sua probabile diffusione, godendo di quel che si ha, dell’amicizia ritrovata e di un amore nascente.
Rimane, ripeto, la validità sostanziale della presa di posizione, più che la sua concretizzazione effettiva, in fondo affidata all’amara constatazione espressa dal barone interpretato da Albertazzi: “Dove andrà a finire questo paese? Nessuno studia più un cazzo”. E così sia…





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