(MyMovies)

Film egualmente controverso e affascinante, certamente atipico nel sempre più asfittico panorama cinematografico italiano, fatte, ovviamente, le dovute eccezioni, per quanto sempre più rare, This Must Be the Place, regia e sceneggiatura (quest’ultima insieme a Umberto Contarello) di Paolo Sorrentino, reca comunque con sé, tra alcune contraddizioni a livello di scrittura e qualche estetismo di troppo, l’indubbio pregio di non lasciare indifferenti, qualunque sia il giudizio, positivo o negativo, che si voglia esprimere.

Personalmente sono rimasto favorevolmente impressionato dal forte impatto visivo, con un procedere lento, quasi ieratico, incentrato essenzialmente su un raffinato intarsio d’immagini, avvalorato dalla bella fotografia di Luca Bigazzi, il cui andamento frammentario viene mitigato dalla colonna sonora, David Byrne e Will Oldham, che riesce a far fluire il racconto con una certa naturalezza, unendosi alla forza recitativa di Sean Penn nei panni di Cheyenne, popstar ormai in disarmo, il quale ci invita a seguirlo in un percorso esistenziale e di crescita piuttosto particolare e anche catartico, per quanto a volte pedantemente programmatico.

L’attore infatti risulta particolarmente in stato di grazia nell’esprimerne tutto il disagio di vivere, la continua fuga da se stesso, con un passato che lo tormenta, zombie ridestato da stanchi rituali sospesi tra noia e quotidianità: il trucco mattutino, cerone, eye-liner, rimmel, rossetto, lacca sui capelli, la spesa, gli incontri con la giovane Mary (Eve Hewson), la prigione dorata della sua villa in quel di Dublino, dove vive con l’energica consorte Jane (Frances McDormand).

A scuotere il suo torpore, la notizia della morte del padre, ebreo sopravvissuto al campo di concentramento, che lo porterà dall’Irlanda a New York e poi in viaggio lungo l’America, avendo come guida un diario paterno, varie tracce di una trentennale ricerca, mai conclusa, del soldato tedesco responsabile di una pesante umiliazione durante la prigionia…

Se la parte irlandese appare più intimista e riflessiva, utile ad evidenziare la complessa personalità di Cheyenne, non del tutto annientata dalla cocaina di cui ha fatto uso, capace com’è d’esprimere profonde verità solo apparentemente lapalissiane, accompagnate per di più da un disincantato sarcasmo, la trasferta americana si caratterizza come un classico road- movie, con il nostro ad affrontare le situazioni più assurde e gli incontri più strani, unendo la purezza di un bimbo affascinato dalla scoperta progressiva di quanto lo circonda alla leggerezza di un angelo ora consolatore, riuscendo ad offrire consistenza di vita agli altri prima ancora che a se stesso, ora vendicatore, nel senso particolare e precipuo di una personale rivalsa nei confronti dei propri errori in chiave di riconciliazione col mondo.

Ciò che può lasciare perplessi è un certa disomogeneità di fondo, anche per i continui cambi d’inquadratura, tra primissimi piani e carrellate, volti ad evidenziare, in esterno o in interno, ogni più piccolo particolare, qualsiasi oggetto in apparenza insignificante, da cui un certo eccesso di simbolismo, per quanto in fondo coincidente nella suddetta visione del mondo secondo Cheyenne.

Resta comunque valida la poesia espressa dal percorso evolutivo, nel definitivo assunto in base al quale, sempre nella netta distinzione tra vittime e carnefici, siamo tutti attoniti spettatori delle diseguali elargizioni proprie di un’Entità che ci sovrasta, immobile ed eterna come il nostro primo amore, riassumendo e forse semplificando le parole della voce over mentre scorrono i titoli di testa.

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