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John Edgar Hoover (1895-1972), semplicemente Edgar per le persone a lui care, tra gli uomini più potenti del mondo, temuto in misura crescente dagli otto presidenti degli Stati Uniti dei quali fu a servizio negli anni in cui si trovò a capo dell’FBI, è stato certamente un personaggio emblematico e contraddittorio: proprio su questi due binari, emblematicità e contraddittorietà, si muove l’ultima fatica da regista del “buon vecchio Clint” (Eastwood), con sceneggiatura a firma di Dustin Lance Blank, nel tracciarne la biografia, delineando una metafora sul potere che assume tratti e toni tragicamente shakespeariani.

Estremamente lineare e abbastanza fluido, nonostante la costruzione attraverso diversi piani temporali (punto di partenza e di arrivo è il 1972, con Edgar che detta le sue memorie, per risalire al 1924 e attraversare man mano i momenti più salienti della storia americana, sino all’avvento di Nixon), resa comunque affascinante da un ottimo montaggio (Joel Cox e Gary Roach) e felici scelte registiche, per quanto improntate ad una classicità pura ed essenziale, il film punta più che a visualizzare una confluenza tra vita pubblica e privata, a far risaltare il loro parallelismo e la predominanza della seconda sulla prima.

Edgar, interpretato efficacemente da uno straordinario Leonardo DiCaprio, che prende su di sé il peso di una notevole fisicità trasformista, infatti, tende ad imprimere alla nazione americana quel baluardo di sicurezza che egli non ha mai avuto, trasforma le proprie debolezze in forza ed autorità, ricatta chiunque minacci la sua posizione, facendo sì che l’apparato governativo si adatti al suo modo di fare e lo accetti senza colpo ferire, sublimando in tal modo il rapporto edipico con la madre (Judi Dench).

Nulla deve sfuggire al suo controllo (la creazione di un registro-archivio, le impronte digitali), in nome della repressione del crimine, certo, ma anche di ogni manifestazione autonoma di pensiero o libera espressione della personalità, come nell’ambito delle proprie scelte sessuali.

Girando soprattutto in interni, coadiuvato da una fotografia (Tom Stern) volta a ricercare il bianco e nero più che il colore, Eastwood non prende propriamente una posizione, preferisce dare visualizzazione all’ambiguità, sia quella legata al potere, alle sue distorsioni, tanto, soprattutto, quella propria dell’anima umana messa a nudo, muovendo con sensibilità estrema la macchina da presa sui personaggi.

Sottolinea con brevi movimenti e poche inquadrature i rapporti tra Edgar con quanti gli stanno vicino, nell’impossibilità di esprimere amore (il rapporto con la sua fidata segretaria, Helen Gandy – Naomi Watts) o sopprimendo i suoi veri sentimenti (il legame con il suo braccio destro Tolson – Armie Hammer).

Ciò che emerge alla fine è la solitudine dell’uomo, vittima delle proprie contraddizioni, ingabbiato da quello stesso potere che aveva messo in essere e sul quale aveva costruito le fondamenta della sua vita, facendo affidamento su derive autoritarie e sulla quella protervia tipica di chi non è incline a giudicare se stesso, se non in punto di morte, con quest’ultima, paradossalmente, ad ergersi come essenza e significato della propria esistenza.

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