Film d’apertura al 66mo Festival di Cannes e quarto adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald (The Great Gatsby, 1925) dopo le trasposizioni datate 1974 (Jack Clayton), 1949 (Elliot Nugent), 1926 (Herbert Brenon), Il grande Gatsby, diretto da Baz Luhrmann (anche sceneggiatore, insieme a Craig Pearce), non mi ha particolarmente convinto, avvertendo come principali emozioni un senso generale di straniamento visivo e qualche momento di noia frammisto ad un vago interesse, in particolare riguardo l’interpretazione offerta da Leonardo DiCaprio nei panni di Gatsby, capace di conferire al personaggio le sfumature proprie di una personalità contraddittoria, pur se lontane da una suggestione concretamente introspettiva.

Più semplicemente, ho avvertito la mancanza durante la visione del Luhrmann’s touch, la sua sfrontata ma seducente rivisitazione dei canoni narrativi tradizionali, qui assolta solo formalmente tramite una messa in scena sin troppo rutilante e chiassosa, in costante dicotomia con una sorta di rispetto per la letterarietà della pagina scritta, seguita spesso attraverso modalità didascaliche e cogliendone meccanicamente la dualità sogno/realtà espressa da Fitzgerald, stemperandosi a livello cinematografico in un pragmatico classicismo.

Sull’altra riva, East Egg, abitava la cugina Daisy (Carey Mulligan), sposata con Tom Buchanan (Joel Edgerton), facoltoso possidente giocatore di polo ed impenitente donnaiolo, mentre oltre la siepe del proprio giardino a far da confine, si ergeva maestosa la villa del misterioso Jay Gatsby (DiCaprio), pronta ad accogliere ogni sera opulenti raduni di gente facoltosa.
Invitato ad uno di tali ricevimenti, Nick aveva modo di conoscere l’affascinante padrone di casa, del quale diveniva ben presto amico, condividendone ogni segreto, come l’amore mai sopito per Daisy, nella convinzione di poter recuperare il passato ed adattarlo alle sue esigenze …

Quando il film prende momentaneamente le distanze dall’eccesso ad oltranza, e si concentra sui personaggi (come il primo incontro tra Daisy e Gatsby, o il dialogo chiarificatore nella stanza d’albergo con Tom), sembra acquisire un maggiore respiro, i movimenti della mdp appaiono più meditati, in particolare nei primi piani, e si scrolla di dosso quella ridondanza “ricca solo della visione di sé”, riprendendo e parafrasando le parole di Fitzgerald.
Ma intanto la sensazione di un procedere per accumulo ha preso consistenza e si giunge stancamente ad un finale capace comunque di colpire, con quel corpo galleggiante nelle acque della piscina, ormai in fin di vita, sacrificio estremo e amara ricompensa di chi ha creduto “nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi”, nel vagheggiare di poterla prendere in mano (“Ci è sfuggito allora, ma non importa: andremo più in fretta domani, allungheremo ancora di più le braccia … e una bella mattina …”), la quale fa sì che “continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato”. Che dire in conclusione? Un film da vedere e, probabilmente, da dimenticare, un giro sin troppo lungo su un vorticoso ottovolante, che a volte si ferma a mezza quota, per poi riprendere a ruotare, spinto dalla forza d’inerzia di una pomposa vacuità.





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