
1983, estate, da qualche parte nell’Italia del Nord, un’antica villa in aperta campagna. Qui trascorre le vacanze il diciassettenne americano Elio Perlman (Timothée Chalamet), animo sensibile votato all’arte, in ogni sua forma ed espressione, con una particolare predilezione per la musica classica. Insieme a lui i genitori, a comporre una famiglia di intellettuali ebrei, il padre Lyle (Michael Stuhlbarg), professore universitario, la madre Annella (Amira Casar), traduttrice. Ambedue non solo assecondano, ma tendono ad arricchire di ogni possibile esperienza le inclinazioni proprie del giovane, il quale evidenzia già una sofferta maturità, naturalmente permeata di candore, ingenuità, istintività sensuale frammista a timore nel dare adito a tutte quelle nuove sensazioni che un organismo in crescita invita a scoprire, come evidenziato dal legame con la coetanea Marzia (Esther Garrel).
Ospite della famiglia Perlman, tradizione che si rinnova ormai da qualche anno a questa parte, un dottorando americano, al quale il professore farà da mentore. Si tratta del ventiquattrenne Oliver (Armie Hammer), fisico aitante e modi tanto gentili quanto spiazzanti, il cui fascino non mancherà di attirare l’attenzione delle ragazze facenti parte della cerchia amicale di Elio. D’altronde quest’ultimo si renderà presto conto di quanto la propria prorompente sessualità, sempre alla ricerca di una definitiva scossa di assestamento, tenda a manifestarsi ora nella circoscrizione di un desiderio inedito, probabilmente non facile da gestire, ma che il ragazzo sembra intenzionato a perseguire fino in fondo, nella reciprocità di imbarazzo, tensione, fisica ma non solo, e ritrosia…

Adattamento, fedele nello spirito originario, dell’omonimo romanzo di André Aciman, 2007, su sceneggiatura di James Ivory*, con la collaborazione di Luca Guadagnino e Walter Fasano, rispettivamente regista e montatore del film, Chiamami col tuo nome si è rivelato alla visione un’opera di compiuta, raffinata, eleganza visiva, unita ad una vivida cura formale, idonea a delineare all’interno di uno spazio circoscritto e debitamente idealizzato, cui la fotografia di Sayombhu Mukdeeprom offre un’aura dalla consistenza sospensiva, avvolgendo simbioticamente i personaggi in una calda luce estiva, un racconto di formazione inteso a visualizzare la deflagrazione progressiva di un desiderio.
Desiderio dapprima latente e “sotterraneo”, ma che infine emerge, dopo aver esplorato sentieri “comuni” (la prima volta con Marzia), nell’ambito di un’esternazione concretamente gioiosa e spontanea, ma sempre tormentata, nel timore di una diversità che ancora fatica ad indossare le vesti di una conclamata “normalità”. Sorprende l’estrema naturalezza con cui i vari accadimenti si materializzano dinnanzi la macchina da presa, tutto sembra svolgersi qui ed ora, offrendosi all’elaborazione empatica degli spettatori. Nel susseguirsi, spesso estetizzante, di piani sequenza ed incisivi primi piani, Guadagnino asseconda un ritmo ponderato, facendo sì che la psicologia dei personaggi e le caratteristiche proprie delle rispettive classi d’appartenenza emergano gradualmente, sostanziandosi, nella forza espressiva e naturalistica delle immagini, attraverso atteggiamenti, gesti, parole.

Ottime le interpretazioni dell’intero cast, anche se a restarti impresso, fra la fisicità conclamata di Hammer, che offre al personaggio di Oliver un ambiguo fascino seduttivo, o l’intuitiva sensibilità genitoriale ritratta da Amira Casar e Michael Stuhlbarg, è senz’altro l’istintivo e vitale affidarsi alla vita di Elio, al colmo di felicità e dolore fino all’accettazione della loro coesistenza, cui l’ottimo Chalamet elargisce icastica schiettezza. L’intero arco narrativo appare dunque proteso a mettere in evidenza, con encomiabile delicatezza (i movimenti di macchina “leggeri”, mai insistenti, lontani da un sentore voyeuristico, con cui Guadagnino inquadra i corpi), riprendendo quanto già scritto nel corso dell’articolo, la progressiva affermazione di un sentimento amoroso tout court.
Dal giocoso abbandono iniziale si passa alle problematiche di un rapporto che vive anche di una fisicità dirompente nell’assecondare la propria emozionalità più intima e profonda, cedendo ala passione e confidando nella sua condivisione, pur nel dolore sotteso, scaturente dalla paventata eventualità che tutto possa avere fine. E’ quanto spiega il padre ad Elio una volta che Oliver farà ritorno in patria, in un monologo particolarmente intenso ed avvolgente nell’ elogiare la bellezza in ogni sua forma, esaltante la necessità di abbandonarsi alla prepotenza dei sentimenti e agli eventuali strascichi afflittivi, nel rispetto della propria essenza vitale: “Non provare niente per non rischiare di provare qualcosa… che spreco!”.
Anche il dolore, quindi, all’interno di un personale cammino esistenziale, è un’emozione da non soffocare e vivere in pieno, non certo nel senso che occorra ricercare la sofferenza, bensì in quello di tenersi stretta la consapevolezza, come sublimato nella bellissima sequenza finale sui titoli di coda, di aver vissuto positivamente un’esperienza sentimentale, accettando i propri ed altrui limiti, riconoscendosi l’uno nell’altro, tanto da potersi scambiare i rispettivi nomi. Dove si nota, credo sia stato notato da molti, un certo impasse è quando il film tenta la strada del sociale, per esempio la situazione politica italiana degli anni’80 espressa per bocca di alcuni ospiti della famiglia Perlman, che sembra spezzare momentaneamente l’incastonato idillio di cui si è scritto.
Ma per sincerità d’intenti ed estemporaneità nel ricercare empatia, Chiamami col tuo nome è certo una realizzazione esemplare, idonea a visualizzare come, nell’ambito di quel sussultorio sentimento denominato amore, la diversità non sia altro, per quanto banale possa apparire, la manifestazione della nostra insita potenzialità a scegliere liberamente l’appagamento esistenziale che più ci aggrada.
*Oscar per la Miglior Sceneggiatura non Originale





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