Attore, cinematografico e teatrale, dalla notevole presenza scenica, misurata ma fortemente espressiva, maturata sui palcoscenici teatrali, e dalla personalità tanto complessa quanto carismatica, Sean Connery (Sir Thomas Connery, Fountainbridge, Edimburgo, 1930) ci ha lasciato oggi, sabato 31 ottobre; la sua popolarità è senza dubbio legata all’interpretazione di James Bond, l’agente segreto 007 al servizio di Sua Maestà con licenza d’uccidere, nato dalla penna di Ian Lancaster Fleming nel 1952 (anno di pubblicazione del primo romanzo, Casino Royale), pur se la sua duttilità gli ha comunque consentito di ricoprire altri ruoli egualmente meritevoli d’attenzione per la loro profondità, attraversati a volte anche da una certa inquietudine o vaga disillusione, proprie dell’uomo ancor prima che dell’attore. Lo si può notare in in Never Say Never Again (1983, Mai dire mai, Irving Kershner), quando Connery riprese il personaggio di Bond dopo averlo abbandonato nel 1971, una volta girato Diamonds Are Forever (Agente 007 ‒ Una cascata di diamanti, Guy Hamilton), a più di vent’ anni di distanza dalla prima volta con Dr. No (Agente 007 ‒ Licenza di uccidere, Terence Young), ma anche in titoli come Robin and Marian (Richard Lester, 1976) o The Untouchables (Brian De Palma, 1987), film che gli valse l’Oscar come Miglior Attore non Protagonista. Nato in una famiglia di umili condizioni, Connery abbandonò gli studi a tredici anni e pur svolgendo vari mestieri non trascurò la propria formazione, in qualità di autodidatta; dopo due anni trascorsi nella Royal Navy, a partire dal 1950 cominciò ad avvicinarsi al mondo dello spettacolo, prendendo parte a qualche commedia e poi a vari drammi in teatro, mentre il fisico aitante gli consentiva anche di lavorare come modello (giunse fra i finalisti al concorso per Mister Universo). Seguirono ruoli televisivi e sul grande schermo, per lo più piccole parti, fino a giungere ad interpretazioni di un certo rilievo (Action of The Tiger, Il bandito dell’Epiro, 1957, Terence Young); Another Time, Another Place (Estasi d’amore, Lewis Allen, 1958).
Dopo Darby O’Gill And The Little People (Darby O’Gill e il re dei folletti, Robert Stevenson, 1959) e The Longest Day (Il giorno più lungo, Ken Annakin, 1962), i produttori Harry Saltzman e Albert R. Broccoli, insieme al regista Terence Young, lo scelsero per ricoprire il ruolo di 007 in Dr. No, come su scritto, che andrà a ricoprire poi in From Russia With Love (Agente 007 ‒ Dalla Russia con amore, Young, 1963), Goldfinger (Agente 007 ‒ Missione Goldfinger, 1964, Guy Hamilton); Thunderball (Agente 007, Thunderball ‒ Operazione tuono, 1965, Young); You Only Live Twice (Agente 007 ‒ Si vive solo due volte, Lewis Gilbert, 1967); Diamonds Are Forever (Agente 007 ‒ Una cascata di diamanti, 1971, Hamilton) ed infine nel citato Never Say Never Again, la ripresa del personaggio dopo una presa di distanza da quel ruolo iconico, che gli permise di spaziare nei generi ed esprimere al meglio la sua intensità recitativa, a dimostrazione di una notevole poliedricità: Woman of Straw (La donna di paglia, Basil Dearden, 1964); Marnie (Alfred Hitchcock, 1964); The Hill (La collina del disonore, 1965, Sidney Lumet); The Man Who Would Be King (L’uomo che volle farsi re, John Huston, 1975); The Wind And The Lion (Il vento e il leone, John Milius, 1975); Zardoz (John Boorman, 1974); Five Days One Summer (Cinque giorni, un’estate, Fred Zinnemann, 1982); Der Name der Rose (Il nome della rosa, Jean-Jacques Annaud, 1986); Finding Forrester (Scoprendo Forrester, Gus Van Sant, 2000), “saltando” fra i vari titoli della vasta filmografia e ricordando infine come negli anni ’90 Connery sia riuscito ancora una volta a distinguersi con la consueta classe, non dimenticando ironia ed autoironia, in vari film d’azione, fra i quali Indiana Jones And The Last Crusade (Indiana Jones e l’ultima crociata, Steven Spielberg, 1989); Rising Sun (Sol Levante, Philip Kaufman, 1993); The Rock (Michael Bay, 1996); Entrapment (Jon Amiel, 1999). Di seguito, le recensioni dei due primi film della saga di 007, a ricordo dell’unico, vero, inimitabile, James Bond.
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James Bond, agente segreto inglese, sigla identificativa 007, ad indicare la “licenza di uccidere”, nasce dalla penna di Ian Lancaster Fleming (Londra, 1908-Canterbury, 1964) nel 1952, anno di pubblicazione del suo primo romanzo, Casino Royale, che non riscosse un particolare successo di critica e pubblico. A partire dal 1962 , anno di uscita nelle sale del primo film ufficiale tratto da un suo libro, il sesto della serie, Dr.No, grazie ai due produttori Harry Saltzman e Albert R.Broccoli, l’autore venne rivalutato, tanto da essere considerato uno dei più significativi scrittori inglesi del ‘900. Con la regia di Terence Young, una sceneggiatura a più mani (Johanna Harwood, Richard Maibaum, Berkerly Wather) che attinge, modificandolo, dal soggetto originale, un certo Sean Connery protagonista, in Agente 007-Licenza di uccidere (il titolo italiano) si delineano tutte le caratteristiche distintive di una saga che arriverà sino ad oggi: l’ormai celebre motivo James Bond Theme, opera di Monty Norman, l’ambientazione “esotica”, il cattivo pazzoide di turno al soldo della Spectre, misteriosa organizzazione terroristica, gli amici come l’agente della CIA Leiter, i gusti particolari di Bond per lo champagne ed il Vodka Martini “agitato, non mescolato”, le varie conquiste femminili. Il film ha inizio in Giamaica, dove un agente inglese e la sua segretaria vengono uccisi: scompare il collegamento con la base dei servizi segreti a Londra, che controllavano l’isola di Crab Crey, collaborando con gli americani, per la provenienza di strane interferenze nei loro lanci da Cape Canaveral. Ad indagare viene inviato l’agente James Bond, che tra intrighi e colpi di scena, scoprirà, grazie anche all’occasionale collaborazione di una bella fanciulla, Honey (Ursula Andress), la base del Dr. No, scienziato folle che mira a dominare il mondo con un diabolico piano; tutto sembra volgere contro il nostro eroe e la sua bella ma…
Su un impianto narrativo ingenuo e dalle varie discordanze, arricchito da sequenze d’azione e da una certa suspense, il film, senza essere un capolavoro, si presenta come un’abile e riuscita miscellanea di vari elementi, ben confezionata, volta a catalizzare l’attenzione del grande pubblico con una buona dose di fantasia e gusto inventivo. L’unico vero, inimitabile, Bond resta Connery, con la sua eleganza sorniona, il fair play tutto inglese anche nell’eliminare i nemici, al pari dello humour, tra il sardonico ed il cinico, con cui si immerge in quel clima da guerra fredda dal quale comunque proviene, con tocchi di autoironia nelle sue imprese “guerriere” e amorose; indimenticabile Ursula Andress che fuoriesce dall’oceano in bikini bianco, prima Bond girl cinematografica. Puro intrattenimento e divertimento, ma di classe: il cinema è anche questo. Secondo film della saga, Dalla Russia con amore conferma la stessa squadra del titolo d’esordio, di un anno precedente, regista Terence Young, Johanna Harwood, Richard Maibaum sceneggiatori, e Sean Connery nei panni del protagonista. Il plot narrativo, basato sul quinto romanzo della serie, ruota intorno ad una misteriosa macchina decifratrice, il lektor, in possesso della Russia, sulla quale vorrebbe mettere le mani la temibile organizzazione criminale Spectre, sfruttando il clima di guerra fredda tra le superpotenze: il piano messo in atto è di far credere, tramite una transfuga del KGB, Rosa Klebb (Lotte Lenya), ad una segretaria dell’ambasciata russa, Tatiana Romanova (Daniela Bianchi), di lavorare per il suo paese, convincendola ad avvicinare Bond e dichiarare di essere disposta a cedergli il misterioso congegno; ma il servizio segreto inglese sente odore d’inganno ed invia 007 in missione ad Istanbul, dove potrà contare sull’appoggio di Ali Kerim Bey (Pedro Armendariz)…
Il maggior budget messo a disposizione dai produttori Harry Saltzman e Albert R.Broccoli, dà vita ad una pellicola meglio definita e articolata rispetto all’antecedente, una felice combinazione, “agitata, non mescolata”, di suspense, spionaggio, ironia, romanticismo ed erotismo, vuoi, in primo luogo, per il fascino visivo delle location, da Venezia, punto di partenza e di chiusura dell’intreccio, passando per Istanbul dove si svolge gran parte dell’azione, sino ad un viaggio a bordo dell’Orient Express che contribuisce a conferire al film un fascino particolare, vuoi, in secondo luogo, per una regia abbastanza “agile”, che riesce a dosare abilmente, con ritmo sostenuto, i vari colpi di scena, alternandoli a qualche digressione lungo il cammino e ovviando contemporaneamente a varie incongruenze, conferendo infine un gradito tocco di realismo a quella stilizzazione che prenderà forma definitiva, quasi virtuosistica, nelle successive realizzazioni. Compaiono qui, per la prima volta, la sequenza antecedente ai titoli di testa (l’uccisione del finto Bond), il personaggio di Q (Desmond Llewelyn) a consegnare uno dei primi “aggeggi”, la valigetta dotata di caricatori, un coltello da lancio, un fucile di precisione smontabile e 50 sovrane d’oro, dalla serratura a prova di manomissione e che avrà un ruolo da protagonista, ed infine, per quanto inquadrato solo ad altezza busto, nel gesto di accarezzare un gatto soriano, il N. 1 della Spectre, Blofeld, interpretato da Anthony Dawson, non accreditato nei titoli di coda. Da incorniciare l’interpretazione di Connery, ormai calatosi nel ruolo, sornione, elegante, ancora un pregevole condensato di humour anglosassone ed invidiabile fair play, per quanto spesso cinico e brutale, a far fede alla “licenza d’uccidere” attribuitagli dal doppio zero, affascinante uomo di mondo, capace di riconoscere un nemico a tavola, viste le poco felici combinazioni gastronomiche di questi (il vino rosso abbinato al pesce…), ed irresistibile tombeur de femmes, insieme a quella della stupenda e brava Daniela Bianchi, innamorata alleata, senza dimenticare le felici caratterizzazioni offerte da Armendariz (malato di cancro, si suicidò dopo le riprese), Lenya, perfidamente e sottilmente ambigua, e da Robert Shaw, biondo e glaciale sicario. Certo, non vi è l’azione frenetica degli action movie attuali, “trucchi” ed effetti speciali fanno sorridere, qualche contenuto in tempi di politically correct può essere moralmente discutibile, ma l’eleganza, la capacità di coinvolgimento, le citate prove attoriali, la solida trama e la sua complessiva plausibilità, elevandosi a cifra stilistica, mi spingono ad affermare che From Russia With Love ancora oggi possa dare dei punti a più di un “moderno” blockbuster.
L’ha ripubblicato su L'arme, gli amori.
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L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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