E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii.* Ravenna, notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Dante Alighieri, consumato dalla febbre malarica, muore lontano dalla natia Firenze, città dalla quale ha subito l’esilio circa vent’anni prima, condanna cui si sarebbero aggiunte, ove fosse stato catturato, la condanna al rogo e alla decapitazione, estesa anche ai suoi due figli maschi, Jacopo e Pietro. Tutti i beni, dalla casa ai terreni, venivano poi confiscati, lasciando alla moglie Gemma l’elemosina di 26 staia di grano sulle loro rendite. Trascorsi più o meno trent’anni dal decesso, in una Firenze ancora avvolta dal puzzo della peste, la cui nebbia mortifera appare comunque squarciata dall’anelito di un’inedita speranza, si fa strada il proposito, certo tardivo, di risarcire l’Alighieri, così come espresso dai capitani della Compagnia di Orsanmichele, una scarsella di dieci fiorini d’oro da consegnare alla figlia Antonia, che ora risponde al nome di Suor Beatrice e dimora al Monastero di Santo Stefano degli Ulivi, a Ravenna. Incaricato di provvedere personalmente al recapito, Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto), prossimo a scrivere un Trattatello in laude di Dante e che ha sempre visto in lui una figura paterna, sia da un punto di vista affettivo che relativamente all’ispirazione per la propria attività letteraria, il quale si prodigherà nel mettersi in viaggio, pur minato nella salute e piagato nelle membra dalla scabbia, su di un carro trainato da due cavalle, condotto dal barrocciaio Mariano Del Pilastro.
Nell’attraversare quegli stessi luoghi che videro il Vate in fuga, provando “sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”*, Boccaccio, nel riportare alla memoria alcuni versi del suo mentore, ne andrà a visualizzare come in un sogno gli accadimenti più rilevanti della vita, dalla morte, ancora bambino, della madre, ai giovanili turbamenti sentimentali esternati verso Beatrice (Carlotta Gamba), presenza tanto corporea quanto angelicata, “rosa non colta”, se non quale musa ispiratrice. E come dimenticare le controversie politiche cui Dante (Alessandro Sperduti) andò incontro una volta incluso nel novero dei priori, guelfo bianco, ostile a papa Bonifacio VIII (Leopoldo Mastelloni), simbolo quest’ultimo di una Chiesa dottrinale e lontana dal salvifico proclama cristologico “misericordia io voglio e non sacrificio”(Mt 9,13 e Mt 12,7), saldamente ancorata al potere quale forma di dominio assoluto e coercizione. Un viaggio quindi anche interiore, che lo condurrà infine alla meta designata, la definitiva comprensione di un’anima semplice, “che sapeva i nomi di tutte le stelle” e aveva abbracciato l’idea di una totale compenetrazione umana all’infinito. Dante, scritto e diretto da Pupi Avati, sulla base del suo libro L’alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante (Solferino, 2021), ritengo sia una delle migliori realizzazioni del cineasta bolognese, esaltando in certo qual senso gli stilemi precipui di una filmografia piuttosto diversificata e poliedrica, da quelli orrorifici degli esordi (l’immagine onirica di Beatrice che letteralmente divora il cuore di Dante, ma anche quella, ricorrente e simbolica, della sfregiata bambola nuziale), ai successivi, permeati di vivida umanità e concreta elegia, con una narrazione del tutto attraversata dal senso affabulante conferito dal “gusto del racconto per il solo piacere di raccontare”.
Una sensazione quella appena descritta che anche nell’opera in esame è enfatizzata dal ricorso alla voce narrante, volta ad intersecarsi con le sensazioni declamate ad alta voce da Boccaccio, interpretato con sincero e sentito trasporto da Castellitto nel rendersi alter ego di Avati e divenire tutt’uno con la macchina da presa nell’avvolgere col suo sguardo, attraversato ora dal disincanto ora dalla consapevolezza portante propria della Storia, quanto andrà ad incontrare nel corso del viaggio, percorrendo i gironi della “umana commedia” che vide protagonista il Sommo Poeta. La regia di Avati dona alla pellicola un ricercato e realistico “respiro d’epoca”; i fluidi movimenti di macchina, uniti alle sorprendenti tonalità della fotografia (Cesare Bastelli), a creare un vivido tutt’uno con le tonalità dei costumi (Andrea Sorrentino) e la cura profusa nelle scenografie dal duo Laura Perini/Mattia Federici (anche esaltando le location naturali, il film è stato girato tra Umbria, Emilia Romagna e Lazio), contribuiscono al fluire di un graduale intarsio d’immagini, dal profondo gusto pittorico, riuscendo infine nell’intento di porre in giusto risalto la personalità sfaccettata e multiforme di Dante.
Quest’ultimo viene raffigurato per lo più così come Boccaccio afferma di averlo sempre immaginato, “un eterno ragazzo”, il cui approccio alla vita, per certi versi permeato da un idealismo forse ingenuo, dovette spesso scendere a compromessi, sottoscrivendo duri patti con la realtà nell’intento di salvaguardare profonde amicizie (come quella con Guido Cavalcanti) o comunque assicurare non tanto a sé, quanto alla citata famiglia che verrà a costituirsi dopo l’imposto matrimonio una esistenza per lo meno dignitosa. Dante, andando a concludere, è un opera permeata di una sana e sostenibile leggerezza, al cui interno la citata ricercatezza visiva e le valide interpretazioni attoriali fanno presto dimenticare qualche passaggio della sceneggiatura un po’ affrettato o non sempre coinvolgente. Le tante felici intuizioni delineate lungo l’iter narrativo offrono infatti il dovuto oblio alle pedanterie scolastiche ricordo di molti studenti, scrivente compreso, vedi il riportare alla mente i versi della Commedia tramite la citazione di determinati accadimenti svelati in guisa di cronachistico racconto (la vicenda di Paolo e Francesca) o funzionale accenno (il trovare rifugio nella dimora del conte Ugolino), così da restituire a Dante l’umanità che gli era propria, sublimata mediando fra poesia, storie e Storia, rendendoci edotti “a riveder le stelle”, liberi dai miasmi del nozionismo e consapevoli della bellezza quale ultima speme salvifica, quasi in odor di agognato miracolo.
*Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII
* Divina Commedia, Paradiso, Canto XVII
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
"Mi piace""Mi piace"