
Montalto di Castro, settembre 2002. La tredicenne Caterina Iacovoni (Alice Teghil) è in procinto di partire per Roma, insieme alla madre Agata (Margherita Buy), casalinga, e al padre Giancarlo (Sergio Castellitto), professore di ragioneria. E’ stato quest’ultimo a prendere la decisione di andare a vivere nella Capitale, ha richiesto infatti, sfiduciato e disilluso, il trasferimento, coltivando la speranza di un inedito slancio vitale, magari facendosi notare come scrittore, così da veder pubblicato il suo romanzo, a sfondo erotico, da tempo nel cassetto.
Andranno a vivere nella casa dei genitori di Giancarlo, dove abita l’anziana zia Adelina (Renata Orso Ambrosoli), assistita da una badante. Caterina frequenterà l’ultimo anno della Scuola Media, nello stesso istituto dove aveva studiato il genitore, e si troverà spaesata e confusa. In classe rinverrà infatti una vera e propria contrapposizione tra due gruppi ideologicamente differenti, quello capeggiato dalla “zecca” Margherita (Carolina Iaquaniello), di sinistra, figlia di noti intellettuali, separati, e l’altro, di destra, che ha quale leader la “pariola” Daniela (Federica Sbrenna), figlia del parlamentare di Alleanza Nazionale Manlio Germano (Claudio Amendola).
La ragazzina andrà a stringere amicizia, in momenti diversi ed in seguito ad alterne vicende che coinvolgeranno pure i rispettivi genitori, con entrambe le coetanee, fino a quando non rinverrà una strada del tutto personale da seguire, ovvero quella inerente la propria individualità, un percorso che andrà ad interessare, pur se con stimoli e motivazioni diverse, anche Agata e Giancarlo.
Regista e sceneggiatore (in quest’ultimo caso insieme a Francesco Bruni), con Caterina va in città Paolo Virzì aggiunge un ulteriore tassello alla concreta prosecuzione della commedia all’italiana propriamente detta, capace di conciliare dramma ed ironia, senso del grottesco e lucida analisi, quest’ultima dalla portata anche sociologica.La tredicenne Caterina, cui l’esordiente Alice Teghil offre naturale stupore nel venire a conoscenza di un mondo a lei finora sconosciuto, andando incontro ad una progressiva maturità, funge da congruo barometro nel dare avviso della tempesta in atto all’interno di un sistema sociale, circoscritto alla realtà capitolina, ma tendente ad assumere una portata più ampia, al cui interno la contrapposizione “tra due eserciti l’un contro l’altro armati” appare sostanzialmente di facciata.
Si rivela, infatti, del tutto funzionale a nascondere quel disagio proprio delle persone comuni, quelle “che contano solo sulle proprie forze”, per dirla con Giancarlo, un intenso Castellitto, il quale andrà ad estremizzare il suo non essere allineato, cui fa buona compagnia l’immaturità espressa nel perseguire un sogno, nella consapevolezza della sua non realizzazione. Prenderà le distanze da tutto e da tutti, dopo aver cercato, anche per il tramite della figlia, una goffa integrazione nell’ambito di una determinata classe intellettuale ormai avviata alla decadenza.
Si tratta di coloro che avevano potenzialmente la capacità di imprimere una svolta inedita al paese, un’alternativa forte, concreta, a quello sfascio morale che iniziava a far capolino già a partire dal periodo immediatamente successivo al boom economico, ma si arroccavano tra i vezzi di una presunta superiorità, spesso incuranti del marcio incline ad insinuarsi in ogni ambito sociale, anzi assecondandone l’evoluzione.
Finivano così per divenire integrati, senza colpo ferire, in un sistema propenso ad uniformare qualsiasi cosa, grazie anche al collante dell’apparenza sfrontata, coltivando vuoto e volgarità e rendendo evidente la dicotomia comportamentale tra condanna da bravi benpensanti e forte attrazione (l’andare a braccetto dell’intellettuale e del parlamentare, interpretati rispettivamente da Bucci e Amendola).
Dall’altra parte della “barricata”, tutte le reminiscenze dei “bei tempi, quando c’era lui”, dal saluto romano d’ordinanza all’intonazione degli inni del Ventennio, si rivelavano certo utili ad accaparrarsi i voti necessari a godere dello scranno in Parlamento, per poi, a risultato conseguito, vestire la casacca più idonea a garantire l’esercizio e il mantenimento del potere, rifuggendo, pro forma, da quei “valori” finora sostenuti (il personaggio del citato parlamentare, permeato di una melliflua ambiguità).
Per venir fuori dalle sabbie mobili della “grande omologazione” e “riveder le stelle”, sembra suggerire Virzì, occorrerà allora, una volta conosciuti i vari gironi, provare a recuperare la propria essenza più intima e vitale, valorizzando quella diversità idonea a fare la differenza, sempre mantenendosi all’interno del contesto sociale e non smarcandosi da esso.
Ecco allora la rinascita di Agata, una splendida Margherita Buy, da casalinga succube del marito, e più madre che moglie, a donna consapevole della propria femminilità, pronta a ritagliarsi una fetta di felicità o qualcosa che ci vada vicino.
Così anche per Caterina, maturata e cresciuta attraverso varie esperienze, anche dolorose, sempre preservando una sorta di primordiale candore, combattendo, lungo l’aspro sentiero che porterà dall’adolescenza all’età adulta, tra la ricerca di un’accettazione confacente a determinati modi d’essere, ora assecondando il modus vivendi di Margherita, ora di Daniela, in buona sostanza due facce della stessa medaglia, e quella invece inerente precipuamente la propria individualità: “Qualcosa di me combatte contro qualcos’altro. Mi chiedo: ma dov’è andato a finire il mio Io di prima? E il mio Io di ora sono veramente io?”.
Solo uno sguardo neutro e distaccato, perpetrato dall’esterno dopo una momentanea fuga da quel contesto di cui subiva gli effetti, la condurrà infine alla piena accettazione di sé: osservare dalla finestra del dirimpettaio Edward (Zach Wallen), ragazzo australiano che vive a Roma con la madre separata, i genitori marionette silenti esternare la loro sofferta caratterialità, non subendone al momento le conseguenze bensì valutandone ogni risvolto, la porterà a guardare definitivamente avanti, agendo in base alle proprie esigenze e ai propri desideri.
Riuscirà allora a dare adito alla sua passione per la musica, iscrivendosi al Conservatorio di Santa Cecilia, così come a rinvenire un’opportuna alleata nella figura materna, in fondo a lei tanto simile nell’esternare una fondamentale purezza nell’assecondare gli alti e bassi della quotidianità.
Un’opera, Caterina va in città, che va ad inserirsi, a mio avviso, tra le migliori realizzazioni di Virzì, il quale mette in scena, con fare arguto e cavalcando agevolmente il grottesco, il doppio binario del romanzo di formazione (Caterina e il mondo giovanile, dove gli adulti sono semplici oggetto d’imitazione, ma non puntuali figure di riferimento, distanti quando non assenti) e del disadattamento disincantato (Giovanni e i suoi tentativi di integrazione).
Avalla poi funzionalmente tutta una serie di stereotipi e luoghi comuni, tuttora propri del quotidiano vivere sociale, così da descrivere, con lucido trasporto antropologico, quel disagio che va a palesarsi nei confronti di una società al colmo dell’ottundimento morale ed esistenziale, superabile solo da quanti, citando De André, rivelino forza e costanza nel navigare, sempre e nonostante tutto, in direzione ostinata e contraria.
Pubblicato su Diari di Cineclub N.119- Settembre 2023





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