(Movieplayer)

Diretto da Martin Scorsese, anche autore della sceneggiatura insieme ad Eric Roth, Killers of the Flower Moon, presentato fuori concorso al 76mo Festival di Cannes, si basa sul libro inchiesta  del 2017 Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI, scritto  dal giornalista David Grann, da noi edito col titolo Gli assassini della terra rossa.

Un film che concilia epicità e drammaticità, mescola i generi (western, noir, thriller), ed evidenzia ancora una volta la capacità di un autore come Scorsese di adattare con estrema coerenza il proprio stile e le tematiche a lui care alla storia raccontata, facendo sì che quest’ultima emerga gradualmente in tutta la sua potenzialità visiva e narrativa.

Essenziale poi il sinergico apporto offerto da montaggio (Thelma Schoonmaker), colonna sonora (Robbie Robertson) e fotografia (Rodrigo Prieto), senza dimenticare le intense interpretazioni attoriali. Il citato volume d’origine, già dal titolo, incentra il racconto sulle indagini avviate agli inizi degli anni Venti da una neonata FBI, nella persona dell’ex ranger Tom White (Jesse Plemons), dopo la richiesta avanzata dalla tribù Osage, in seguito alle misteriose morti che andarono a colpire vari Nativi  nella loro riserva, in Oklahoma, dove si erano stabiliti per ordine del governo degli Stati Uniti, spostandosi dall’originario Ohio alle valli del Mississippi, attraversando Missouri e Kansas.

La pellicola, invece, abbraccia il punto di vista del “popolo scelto dal caso”, divenuto immensamente ricco dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi sulla propria terra nel 1894, anche se, pur mantenendo i diritti minerari, una legge del Congresso imponeva che i profitti fossero gestiti da tutori bianchi, ritenendo gli Osage “incompetenti”.

Si offre dunque visualizzazione ad un insinuante senso d’inquietudine, scaturente da un’integrazione tra Nativi e bianchi del tutto forzata, suggerita da interessi economici, con i primi che hanno ormai snaturato la loro primigenia essenza, come evidenziato dalla sequenza iniziale che alterna le immagini di un rituale sacro, la sepoltura di un calumet, inteso ad ufficializzare la perdita delle antiche usanze, i figli “ormai istruiti dai bianchi”, con quelle dei filmati riportanti cronache d’epoca relative al rinvenimento dell’oro nero.

I secondi, invece, hanno indossato il vello d’agnello sulla pelle di lupo, concilianti e bonari quel tanto che basta per coltivare i propri interessi, vedi i vari matrimoni con le giovani indigene, tramando nell’ombra per poterne ereditare gli ingenti beni.

E’ quanto suggerisce l’allevatore di bestiame William King Hale (Robert De Niro) allo spiantato nipote Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio), tornato a Fairfax dal Primo Conflitto con una ferita che gli impedisce i lavori pesanti, sposare l’Osage Mollie Kyle (Lily Gladstone), malata di diabete, quindi cagionevole di salute, al pari della madre e delle sorelle, e magari, sottinteso, facilitarne la dipartita, esternando sempre e comunque amorevoli premure e cure costanti.

Si è fatto un gran parlare delle tre ore e qualcosa di durata, ma personalmente, del tutto avvinto dalla narrazione, non le ho avvertite, ritenendole d’altronde necessarie  per dispiegare con suggestiva teatralità i vari eventi, partendo da una sorta di prologo, passando poi  per un primo e secondo atto, contraddistinti ognuno da un diverso grado d’intensità emotiva.

Se quindi nel preludio l’obiettivo della macchina da presa indugia su ogni particolare inteso ad evidenziare il mutamento dei Nativi colpiti da improvviso benessere (vedi le loro lussuose auto, spesso guidate da autisti bianchi), visualizzandone l’apparente supremazia, si passa poi a riportare la visuale di Ernest, ottimamente reso da DiCaprio nel suo miscuglio caratteriale di stolida ingenuità, affetto rivestito da devozione servile ed amore sincero verso Mollie, obnubilato però dal fare plagiante dello zio, un De Niro nuovamente in gran spolvero, machiavellico e luciferino nel celare la propria rapacità, usare la ricchezza per accumularne altra, e la presunta superiorità razziale, con modi melliflui e accomodanti (le carezze dell’uomo malvagio nascondono insidie, Fedro), rivelandosi poi in privato come una specie di sinistro profeta, pro domo sua (“Li aiuterò io. Ce li porto io nella tomba. Gli faciliterò la vita. Le civiltà vanno e vengono” ).

Molto ben caratterizzato il personaggio di Mollie, reso con vivida naturalezza da Lily Gladstone nella sua ostentata purezza, pur intuendo le manovre volte agli sponsali (“Il coyote vuole i soldi”), che si prende carico, agnello sacrificale, di tutte le oscure  macchinazioni messe in atto dal perfido burattinaio. Una volta offerto congruo proscenio ad ogni aspetto dell’apparato sociale e ai caratteri  dei principali protagonisti, svelate gradualmente le losche manovre a danno dei Nativi e non solo, ecco che l’epilogo va a concentrarsi sulle indagini svolte dalla FBI, interrogatori, raccolta di prove, grazie alle quali la verità verrà fuori ma non propriamente declamata.

Molto bella la sequenza che vede l’intera comunità bianca di Fairfax, comprensiva delle personalità più influenti, anche a livello istituzionale, riunita in un’unica stanza, intenta a decidere su quale linea adottare in tribunale per allontanare sospetti e accuse, vera e propria dichiarazione di colpevolezza offerta alla consapevolezza di noi spettatori.

Più che alla vicenda processuale in sé, infatti, a Scorsese interessa, almeno a mio avviso, dare spazio alla tematica a lui cara dell’individuo alienato dal contesto sociale, intento a costruirsi un personale microcosmo le cui fondamenta sono costituite dal disagio esistenziale o dall’illegalità, quando non da ambedue, il quale prima o poi dovrà scendere a patti con se stesso, col proprio essere più intimo e personale, arrivando ad autoassolversi (William) o ad un tardivo pentimento (Ernest).

Il finale sembra seguire un doppio binario, da un lato lo svelamento delle morti misteriose, la sorte dei colpevoli, tra mancate condanne o pene lievi, che trova posto all’interno di una trasmissione radiofonica, e dall’altro la sequenza conclusiva del tutto speculare a quella iniziale, con la tribù degli Osage ora riunita in una danza votiva, il definitivo recupero della propria individualità quale concreto risarcimento delle sopraffazioni subite.

6 risposte a “Killers of the Flower Moon”

  1. […] diretto da Christopher Nolan. Sette candidature a testa per Povere creature! di Yorgos Lanthimos e Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese. Buone notizie per i nostri colori, Io capitano di Matteo Garrone è in gara per […]

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  2. […] una commedia. Lily Gladstone ha ricevuto il premio come miglior attrice in un film drammatico per Killers of the Flower Moon e Paul Giamatti quello come miglior attore in una commedia per The Holdovers. Il ragazzo e […]

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  3. […] da Christopher Nolan, cui seguono le undici di Povere creature! (Yorgos Lanthimos)  e le nove di Killers of the Flower Moon (Martin Scorsese) e La zona d’interesse (Jonathan Glazer). Cinque candidature per Barbie (Greta […]

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  4. […] Nolan, con 13 candidature, cui seguono le 11 di Povere creature! (Yorgos Lanthimos). A quota 10 Killers of the Flower Moon (Martin Scorsese), 8 candidature per Barbie (Greta Gerwig) e 7 per Maestro (Bradley Cooper). […]

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  5. […] regista  Justine Triet e di Arthur Harari. A bocca asciutta, purtroppo, Martin Scorsese e il suo Killers of the Flower Moon, pur forte di dieci candidature, comunque credo che la vittoria di Hoppenheimer abbia reso il […]

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  6. […] regista  Justine Triet e di Arthur Harari. A bocca asciutta, purtroppo, Martin Scorsese e il suo Killers of the Flower Moon, pur forte di dieci candidature, comunque credo che la vittoria di Hoppenheimer abbia reso il […]

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