
Lo scorso 15 ottobre è ricorso il centenario della nascita di Vittorio De Seta (1923-2011), regista e sceneggiatore dallo stile essenziale, volto alla concretezza, spesso felicemente intuitivo e ammantato di poesia e purezza in egual misura. La rigorosità della composizione complessiva, coniugando realismo ed afflato visivo, prevedeva una particolare attenzione all’utilizzo della luce e della presa diretta riguardo il sonoro, come fa notare Mario Sesti ne L’enciclopedia del Cinema Treccani.
Dopo aver studiato per un po’ di tempo Architettura a Roma, si dedicò in seguito all’attività cinematografica, dando inizio alla sua carriera nel 1953, come secondo aiuto regista di Mario Chiari (l’episodio Epoca fascista del film Amori di mezzo secolo), proseguendo l’anno seguente come aiuto regista di Jean-Paul Le Chanois (Le village magique, Vacanze d’amore), iniziando a girare alcuni brevi documentari, con mezzi propri, ambientandoli per lo più tra la povera gente, minatori, pastori, contadini della Sicilia (Pasqua in Sicilia, 1954; Lu tempu di li pisci spata, 1955, tra gli altri) e della Sardegna (Pastori di Orgosolo; Un giorno in Barbagia, entrambi del 1958), descrivendone, suffragando un respiro antropologico, tanto le dure condizioni lavorative e di vita quanto la tradizionale e rituale solennità di alcune feste religiose, vincendo nel 1955 all’VIII Festival di Cannes il premio come miglior cortometraggio documentario per Isola di fuoco.
In Calabria, dove era nata sua madre, regione cui era particolarmente legato, girò, ad Alessandria del Carretto (CS), nel 1959, I dimenticati, descrivendone tanto la condizione d’isolamento, visto che l’unico modo di avvicinarsi alla zona costiera era costituito da impervie mulattiere o dai letti delle fiumare, sia i momenti d’aggregazione tra gli abitanti, con festeggiamenti dal sapore simbolico a segnare il passaggio dall’inverno alla fase primaverile del ritorno alla vita, come la Festa dell’Abete. Alla regione dedicò lo splendido documentario In Calabria, 1993, ritratto diretto e sincero di una terra e di un popolo, al di fuori di ogni pregiudizio o deriva folkloristica.
Il suo primo film fu Banditi ad Orgosolo, 1961, lucida analisi del fenomeno del banditismo sardo, vincitore del premio Opera prima alla X Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, alla cui sceneggiatura collaborò la moglie Vera Gherarducci, ispirandosi al saggio di Francesco Cagnetta Inchiesta ad Orgosolo, mentre nel 1966 con Un uomo a metà, che abbraccia l’analisi introspettiva, si allontanò momentaneamente dallo stile documentarista- cronachistico volto all’inchiesta sociale, per riprenderlo con indubbia efficacia nel 1972, quando girò per la Rai, inizio di una fruttuosa collaborazione, Diario di un maestro, quattro puntate, tratto dal romanzo autobiografico di Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, che riscosse grande successo di pubblico.
Il suo ultimo lavoro risale al 2006, Lettere dal Sahara, incentrato sulle vicende del senegalese Assane, che dopo un naufragio, da clandestino, a Lampedusa, gira per l’Italia, rinvenendo vari lavori in nero, fino alla regolarizzazione una volta ottenuto il permesso di soggiorno, integrandosi quindi nel sistema rinunciando però alla propria individualità.
A parere di chi scrive la coraggiosa e innovativa originalità formale propria di De Seta, libera da mode o condizionamenti, la possiamo rinvenire a tutt’oggi, restando in casa nostra, nelle opere di Michelangelo Frammartino, dove la soppesata compostezza delle inquadrature e la disarmante semplicità espositiva (dialoghi assenti o avvertibili come brusio sullo sfondo, i versi degli animali o i rumori a fare da colonna sonora) riescono a dare vita ad una vera e propria poesia visiva, riconducendoci all’essenzialità del cinema “puro” delle origini, un riferimento al passato per meglio comprendere ed interpretare il presente, volgendo uno sguardo concreto al futuro.
(Rielaborazione ed approfondimento dell’articolo scritto in data 29/11/2011, alla morte del regista)





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