
San Francisco, giorni nostri. La tredicenne Riley, ormai prossima a frequentare il liceo, ha da poco portato a termine una importante partita di hockey su ghiaccio, assicurando col suo gioco, coadiuvata al riguardo dalle amiche Bree e Grace, la vittoria della squadra al campionato scolastico.
Tutte e tre ricevono un invito a trascorrere il fine settimana al liceo cittadino, così da partecipare alle selezioni per entrare nel team Firehawks. Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia, le emozioni che finora, dall’alto della loro consolle cerebrale, hanno tenuto efficacemente sotto controllo i vari sconquassi propri di un organismo in crescita qual è quello di Riley, possono dirsi soddisfatte, tanto da essere riuscite a comporre un particolare insieme di ricordi positivi e buoni sentimenti, denominato Senso di sé, mentre ogni turbinio esistenziale negativo è stato accuratamente messo da parte ed inviato in un recondito anfratto, così da non poter più recare nocumento.

Ma ecco che, improvvisamente, nel cuore della notte il sonno dei giusti viene turbato dal risuonare dell’allarme rosso, sta per abbattersi sulla ragazzina un cataclismatico evento, noto come pubertà: una squadra di tecnici è infatti già al lavoro per sistemare una nuova postazione di comando, che possa dar spazio al subentro di inedite emozioni, Ansia, Ennui, Imbarazzo e Invidia, con la prima destinata ben presto a detenere il comando…
Egualmente a quanto accade alla protagonista Riley, anche la personale piattaforma emozionale che trova certo buon albergo nella mia mente è andata in tilt nel corso della visione di Inside Out 2, secondo capitolo del geniale film d’animazione Disney-Pixar risalente a nove anni fa, che all’epoca mi aveva del tutto conquistato per l’efficace integrazione fra mirabilia visiva e resa contenutistica, entrambe piacevolmente affabulanti ed intriganti, sia per i “grandi” che per i piccini.

L’esordiente Kelsey Mann subentra alla regia in luogo dei precedenti Pete Docter (adesso produttore esecutivo) e Ronnie Del Carmen, mentre la sceneggiatura è affidata a Meg LeFauve e Dave Holstein. Il tilt di cui sopra è stato indotto nello scrivente dal contrasto tra le opposte sensazioni provate, pronte a contendersi il campo come “due eserciti l’un contro l’altro armati”: da un lato il divertimento, più o meno costante, lungo l’intero arco narrativo, con qualche momento di stanca (il viaggio delle “vecchie” emozioni alla ricerca del perduto Senso di sé) ed una punta di benvenuta commozione empatica verso il finale (la sequenza dell’attacco di panico), dall’altro un senso di già visto e, soprattutto, l’aver avvertito la mancanza di quel concreto e spontaneo avvolgimento emotivo che mi aveva invece avvinto nella precedente realizzazione.

Mi aspettavo insomma un maggiore guizzo inventivo, qualcosa che alzasse ulteriormente l’asticella nel far quadrare il cerchio verso una fascinazione intesa a conciliare, tanto visivamente che riguardo il contenuto, un punto di vista propriamente adulto con l’incanto genuinamente fanciullesco (la mente va al bellissimo personaggio di Bing Bong, proprio del primo film).
Le stesse nuove entrate, a partire da Ansia, raffigurata come, personale sensazione, una sorta di nevrastenico connubio tra il primissimo Daffy Duck e Woody Woodpecker, proseguendo con Imbarazzo, ragazzone infagottato in una tuta da ginnastica a mo’ di barriera protettiva, Ennui (ovvero Noia, in francese, non a caso rappresentata a metà strada tra l’esistenzialista e il bohémien) e concludendo con Invidia, non sempre offrono caratterizzazioni del tutto incisive, bensì, a mio avviso, schematiche, vedi la predisposizione ansiogena intesa a “tavolinizzare” l’avvenire, prefigurando vari eventi nefasti e facendo sì che la personalità di Riley si conformi a quella altrui, in nome di un compiacimento asservente.
Rimane, fortunatamente, la sempre valida visualizzazione del meccanismo attraverso il quale ogni mutamento del mondo reale può ripercuotersi all’interno della psiche umana e viceversa, concedendo opportuno spazio, figurativo e narrativo, a due universi paralleli, mai propriamente combacianti. A volte, però, mi è sembrato di assistere a nient’altro che non fosse un buon teen drama televisivo, con un certo senso di preordinazione, pur apprezzandone l’assunto finale, proprio di un valido racconto di formazione.
Il citato senso di sé, unito alla percezione di “essere una brava persona”, andrà infatti ad essere necessariamente rappresentato dall’accettazione complessiva delle tante emozioni e sensazioni provate nell’ambito delle alterne esperienze esistenziali, vivendole in pieno nella loro brusca alternanza di gioie e dolori.

Solo così sarà possibile accettarsi per quel che si è e non per quello che gli altri vorrebbero che fossimo, salvaguardando la propria identità diversificante dagli assalti di una camaleontica e conformistica omologazione.
Inside Out 2, andando a concludere, punta dritto sul binario della “gradevolezza complessiva”, centrando il bersaglio di quell’ordinarietà rassicurante intesa a garantire il massimo dei risultati (leggi floridi incassi, benvenuti, beninteso) col minimo sforzo, preferendo la linearità pura e semplice al possibile innesto di un minimo di complessità introspettiva o di combinazioni ad alto tasso adrenalinico come avveniva invece nell’opera originaria, restando nei limiti, autoimposti, delle Colonne d’Ercole della meraviglia standardizzata e pronto uso, che in altre realizzazioni la Disney – Pixar aveva dimostrato di poter agevolmente superare.

Atteso, ça va sans dire, un terzo episodio, facilmente intuibile dalla comparsa a tratti di un simpatico personaggio, l’emozione Nostalgia, raffigurata nelle sembianze di una candida signora pronta ad offrire una tazza di tè, anche se in tema pubertà credo sarebbe opportuno inserire quel turbamento emotivo comportante la condizione di “rincitrulluliti” una volta giunta la primavera, come insegnava il buon gufo al cerbiatto Bambi e ai sui amici, la moffetta Fiore e il coniglietto Tamburino (Bambi, 1942, David Hand) …
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Un cenno alle voci della versione originale, Amy Poehler (Gioia), Phyllis Smith (Tristezza), Lewis Black (Rabbia), Tony Hale (Paura), Liza Lapira (Disgusto), Maya Hawke (Ansia), Ayo Edebiri (Invidia), Paul Walter Hauser (Imbarazzo), Adèle Exarchopoulos (Ennui), June Squibb (Nostalgia), Yong Yea (Lance Slashblade) e da Kensington Tallman (Riley), e a quelle, dall’efficace resa, della versione italiana, Stella Musy (Gioia), Daniele Giuliani (Paura), Melina Martello (Tristezza), Paolo Marchese (Rabbia), Veronica Puccio (Disgusto), Pilar Fogliati (Ansia), Marta Filippi (Invidia), Federico Cesari (Imbarazzo), Deva Cassel (Ennui), il cantante Stash (Lance Slashblade) e Graziella Polesinanti (Nostalgia), Sara Ciocca (Riley, sostituendo Vittoria Bartolomei).
Immagine di copertina: Cineblog






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