
Probabilmente sarò la classica mosca bianca, ma ho molto apprezzato la trilogia dedicata a Diabolik dei Manetti Bros., ecco perché ho voluto raccogliere, riordinare e rielaborare le sensazioni, in buona parte positive, che avevo messo su carta subito dopo la visione per dar vita ad un approfondimento, tenendo ben a mente quanto dichiarato dagli stessi autori in varie interviste: non è un film su Diabolik, bensì il film di Diabolik.
Si tratta della seconda trasposizione cinematografica delle gesta del Re del terrore nato dalla fantasia delle sorelle Giussani, Luciana ed Angela, nel novembre del 1962, dopo quella, ipercinetica e rutilante, di Mario Bava (1968).
Il via è stato dato nel 2021 con Diabolik, Manetti Bros. registi e anche autori della sceneggiatura insieme a Michelangelo La Neve, prendendo spunto, fra adattamenti e modifiche, principalmente dall’albo n.3, L’arresto di Diabolik (uscito l’1 marzo 1963, disegni di Gino Marchesi e sceneggiatura di Angela Giussani) e dal suo remake (collana Il grande Diabolik, 2012, disegni Giuseppe Palumbo e Pierluigi Cerveglieri, sceneggiatura Tito Faraci).
Premetto di essermi piuttosto divertito, praticamente non ho staccato gli occhi dallo schermo dall’inizio alla fine, coltivando la ferma idea che i Manetti abbiano al contempo dato adito tanto ad un atto d’amore che ad un atto di coraggio.

Il primo si sostanzia nella ricostruzione fedele delle atmosfere proprie degli anni ’60 così come risultanti dalle tavole disegnate ma anche dalle patinate riviste d’epoca (vedi le tonalità pastello dei vestiti e la fotografia di Francesca Amitrano), riprendendo nelle inquadrature le vignette d’origine (ad esempio il lancio del pugnale, con tanto di sonoro swiiiss), ricalcando poi gli stilemi dei dialoghi e lo schema narrativo di illustrare la dinamica dei colpi o l’incedere di determinati accadimenti prima o dopo la loro esecuzione o il loro verificarsi, ricorrendo anche allo split screen per riproporre la scomposizione illustrativa dell’albo d’origine.
Riguardo il secondo aspetto, credo sia la logica conseguenza di quanto finora scritto, ovvero un ritmo narrativo che si rifà a quello proprio dei gialli o noir d’epoca, traendo ispirazione per le scene d’azione dal buon “vecchio” poliziottesco nostrano (la bella sequenza dell’inseguimento iniziale, le auto della polizia di Clerville a tallonare la Jaguar E–Type nera di Diabolik), con un uso della CGI nullo o limitato allo stretto indispensabile.
Piuttosto felice anche il ricorso a musiche del tutto consone al narrato (Pivio e Aldo de Scalzi, canzoni di Manuel Agnelli, fra le quali la splendida La profondità degli abissi) e rimarchevole la cura certosina delle scenografie, nella geniale intuizione di sfruttare diverse città italiane a rappresentare località immaginarie quali Clerville (Milano e Bologna) o Ghenf (Trieste).
Tutto molto distante quindi (fortunatamente, almeno per lo scrivente) dai muscolari e obnubilanti giri di giostra dei cinecomic americani, anche a costo di un’apparente ponderatezza nell’incedere dell’iter narrativo, funzionale alle descritte modalità rappresentative.
Eva Kant, interpretata da una magnifica e del tutto in parte Miriam Leone, affascinante e grintosa (“mogliettina un corno!”), va a costituire il motore principale dei vari avvenimenti, a partire dall’intervento salvifico verso “il genio del male” una volta che sarà arrestato, processato e condannato alla ghigliottina.

La sua figura inoltre rappresenta un ben preciso percorso di emancipazione ed autodeterminazione nel lasciarsi alle spalle un passato burrascoso (la morte del marito in uno strano incidente di caccia, il lavoro in un locale gestito da un noto gangster, l’attività di spionaggio industriale in Sudafrica), seguendo emozione ed istinto nell’affidarsi ad un uomo del quale conosce poco o nulla, nascosto sotto le vesti di Walter Dorian (Luca Marinelli, forse fin troppo algido e compassato, per quanto possa ricordare in questo le primissime raffigurazioni dell’ “uomo dai mille volti”), ma che, come lei, appare noncurante di regole o convenzioni sociali.
Ambedue infatti si dimostrano inclini ad adattare qualsiasi circostanza alla propria condotta di vita, così da trarvi congruo vantaggio, rispondendo ad una del tutto personale legge morale, comportante in primo luogo il rispetto della propria individualità e la strenua difesa delle proprie scelte esistenziali. Due persone sole, nel precipuo significato di avulse dall’ordinario contesto sociale, che una volta insieme diverranno un unicum di romanticismo, rispetto reciproco, fiducia, così come di astuzia e ferocia criminale.
Se Eva è del tutto dissimile dalla precedente compagna di Diabolik, Elisabetta Gay (Serena Rossi), timorata e succube a quella sottomissione psicologica nota come gaslighting, altrettanto può scriversi per il pretendente della ammaliante milady, il viceministro della Giustizia Giorgio Caron (Alessandro Roja), individuo mellifluo, falso e meschino, simbolo di quei tanti uomini di potere che forti della sicumera offerta dalla loro posizione non esitano a commettere qualsiasi genere di illecito per arricchirsi indebitamente.
Su tutto e tutti si erge poi la figura del granitico ispettore Ginko, l’ottimo Valerio Mastandrea nel rendere quel misto di pervicacia e rassegnazione, ammirazione e compassione, proprio di un uomo che ha fatto della caccia al “maledetto criminale” una ragione di vita, del tutto in corrispondenza con gli ideali di legge e giustizia cui aderisce con convinzione: esplicativa al riguardo la sequenza che lo vede viso a viso con Diabolik sul molo del porto della città di Ghenf, quando i due esterneranno l’uno contro l’altro le rispettive modalità esistenziali.

Il secondo capitolo, Diabolik. Ginko all’attacco!, denota una maggiore coesione narrativa, anche in virtù di una ancora più incisiva concretezza relativa alle proprie capacità autoriali.
La storia prende il via a Ghenf, Museo Nazionale, notte. Diabolik (Giacomo Gianniotti), scalandone la parete, si è introdotto nell’edificio da una finestra, uccidendo con un fulmineo lancio dell’inseparabile pugnale l’agente di guardia, avendo così libero accesso alla sala in cui è esposta una corona d’oro e gemme preziose facente parte della collezione di gioielli Armen, chiudendo poi la porta dall’interno.
Richiamate dal suono dell’allarme, le altre guardie sono quindi costrette ad usare l’esplosivo per poter entrare, ma è troppo tardi, il genio del male si è già librato in volo con la refurtiva, per mezzo di un aliante: ad attenderlo a valle vi è l’amata complice Eva Kant (Miriam Leone), a bordo della nera Jaguar E-Type, colpo riuscito, via a tutto gas verso il rifugio.
Trascorso un mese, al Teatro Excelsior di Clerville sta per andare in scena uno spettacolo ad opera del Balletto Smeraldo, cinque affascinanti ballerine sul palco con indosso la collezione completa dei citati gioielli Armen, che, con un abile stratagemma, saranno rapite dal duo criminale, così da impossessarsi dei monili per poi lasciarle libere, sane e salve.
Diabolik ed Eva non possono però sapere che la rappresentazione è frutto di una meticolosa orchestrazione messa in atto da Ginko (Valerio Mastandrea), il quale ha fatto immergere i gioielli in un liquido radioattivo. Il “dannato ispettore” con tutta la sua squadra riuscirà ad individuarne il nascondiglio, scavato all’interno di una montagna, per cui la coppia sarà costretta a darsi alla fuga, a piedi, con Diabolik che non si farà scrupolo ad abbandonare la compagna, rendendole difficile mettersi in salvo. Ambedue sfuggiranno alla cattura, ma la polizia è ormai in possesso di tutte le loro ricchezze, anni di rapine e colpi criminali, riuscendo poi a scovare un ulteriore covo/laboratorio all’interno di una fabbrica dismessa.
Una parziale vittoria per Ginko, che presto si troverà a gestire, tallonato dal Ministro della Giustizia, non solo la richiesta di una Lady Kant desiderosa di vendetta, un lasciapassare per l’espatrio in cambio della collaborazione per la cattura di Diabolik, ma anche una delicata questione personale legata all’ammaliante Altea Von Waller (Monica Bellucci), duchessa di Vallenberg, giunta a Clerville per recarsi al ricevimento in casa Beaumont, dove potrà fare sfoggio della collana nota come Grifone nero…

I Manetti nel mettere in scena Diabolik. Ginko all’attacco! hanno adattato, piuttosto liberamente, l’omonimo albo, il numero 16 del 10 aprile 1964 (sceneggiatura di Angela e Luciana Giussani, disegni di Enzo Facciolo), sempre insieme a Michelangelo La Neve, innestandovi all’interno della narrazione il personaggio di Altea, reso con fare divertito, vedi l’ostentato accento esotico, da Monica Bellucci, la cui complicata relazione con Ginko appare qui avviata da qualche tempo (nel fumetto la scintilla scoccò nel numero 22 del 10 ottobre 1964, Il grande ricatto, sempre scritto dalle sorelle Giussani e disegnato da Facciolo).
Importante cambiamento, “l’uomo dai mille volti” non è più interpretato da Luca Marinelli bensì da Giacomo Gianniotti, il cui sguardo, congiunto al sorriso beffardo, rende bene il passaggio dal Diabolik algido e compassato come interpretato dai primissimi disegnatori a quello più espressivo proprio del più volte citato Facciolo, anche se come fisicità complessiva siamo lontani da quella, atletica e scultorea, propria del disegno (ricordo che le Giussani individuarono come modello di riferimento l’attore Robert Taylor).
Nel precedente capitolo il motore principale dei vari avvenimenti, a partire dall’intervento salvifico verso “il genio del male” una volta che veniva arrestato, processato e condannato alla ghigliottina, era rappresentato da Eva Kant, interpretata da una magnetica Miriam Leone, ora, se possibile, ancora più affascinante e grintosa, in particolare nel gestire il rapporto col suo “lui” (splendido il battibecco sull’eventualità da lei prospettata di prendersi una pausa: “Diabolik non va in vacanza!” e lei, di rimando, “Eva invece sì, e crede pure di essersela meritata”).
Adesso, invece, il fulcro portante della narrazione, con tanti colpi di scena ad incalzare e movimentare il ritmo narrativo, è certamente rappresentato dal ferreo ispettore Ginko, sempre ottimamente reso da Valerio Mastandrea, che, oltre alle caratteristiche comportamentali e psicologiche delineate nel primo capitolo, ora rimarca la rassegnata tristezza propria dell’aver sacrificato sull’altare di determinati ideali i sentimenti, come quelli, intensi, provati verso Altea, ricambiati ma ostacolati nel loro libero esternarsi dal rigido rispetto delle convenzioni sociali. Una clandestinità amorosa che sembrerebbe in linea con quanto vissuto da Diabolik ed Eva, anche se la coppia criminale deve rispondere essenzialmente ad una del tutto personale legge morale.

Meno lineare, più “agitato non mescolato” rispetto alla precedente realizzazione, a partire dalla splendida sequenza iniziale del furto al museo cui segue quella ancora più scoppiettante del balletto sulle note di Se mi vuoi (Diodato) mentre scorrono i titoli di testa, che richiama sì i film di 007, ma anche, come credo notato da molti, le sigle degli spettacoli televisivi e dei telefilm polizieschi datati anni ’70, Diabolik-Ginko all’attacco! ripropone con ancora maggior cura (la fotografia di Angelo Sorrentino, meno brumosa rispetto a quella ideata da Francesca Amitrano) e convinzione una stretta derivazione dalle tavole disegnate così come dalle riviste d’epoca nel ricostruire le atmosfere proprie degli anni ’70 (a giudicare da alcune automobili presenti in scena, come l’Alfa Romeo Montreal, ma anche dagli arredi, l’azione reputo si svolga in quel periodo), evidente in ogni inquadratura (vedi ad esempio il lancio del pugnale, col micidiale sibilo e il rumore sordo una volta centrato il bersaglio) e pure nei dialoghi, ripresi per lo più totalmente dagli albi d’origine.
Egualmente può scriversi riguardo la descrizione della dinamica dei colpi o dell’incedere di determinati accadimenti prima o dopo il loro verificarsi, ricorrendo sempre allo split screen per riproporre la scomposizione illustrativa del fumetto. Viene abbandonato, in parte, il ricorso agli stilemi da giallo/noir d’annata in favore, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, di quelli propri dei più riusciti poliziotteschi o di altri film di genere nostrani, questi ultimi richiamati anche nelle tonalità delle suadenti musiche opera di Pivio e Aldo de Scalzi. Sempre valida, poi, la cura riservata alle scenografie, con l’idea vincente di mescolare visivamente fra loro le zone più rappresentative di diverse città italiane a visualizzare località immaginarie quali Clerville (Milano e Bologna) o Ghenf (Trieste).
Molto bello, a mio avviso, il succedersi delle sequenze verso il finale, dal saluto formale tra Altea e Ginko all’aeroporto, con evidente passione trattenuta (da parte di lui, lei gli riserva uno sguardo foriero di mille promesse), al ricongiungersi (spoiler) della coppia criminale, arrivando poi alla visione di Ginko, solo, nel rifugio sequestrato a meditare la prossima mossa… la caccia continua… ma intanto “tutto il mondo tremerà nel sentire il nome di Diabolik!” .

La visione di Diabolik. Chi sei?, ultimo capitolo della trilogia, mi ha ulteriormente entusiasmato rispetto ai due titoli precedenti, riproponendo la mia considerazione nel ritenere la saga fortunatamente molto distante dai vorticosi cinecomic americani. Siamo nella Clerville degli anni ’70: Diabolik (Giancarlo Gianniotti) e la sua degna compagna, l’affascinante Eva Kant (Miriam Leone), hanno architettato nei minimi particolari un piano per impossessarsi delle preziosa collezione di monete appartenente alla contessa Wiedemar (Barbara Bouchet).
Nel pregustare la perfetta riuscita del colpo non potevano però predire, tra i possibili imprevisti, che nella stessa banca dove ne era prevista l’esecuzione potesse esservi una rapina ad opera di una banda di spietati criminali, né che uno dei malviventi andasse a rubare anche la citata collezione di monete, facendo fuori la contessa. L’intervento della Polizia, con conseguente scontro a fuoco e successivo, vano, inseguimento, lascerà comunque una vittima sul campo.
Uno dei rapinatori resterà infatti gravemente ferito e l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea), che nel frattempo ha ricevuto la visita in segreto della compagna Altea Von Waller, duchessa di Vallenberg (Monica Bellucci), si augura sopravviva per ottenere ogni informazione possibile. Intanto metterà sotto torchio la moglie, non ricavandone nulla, decidendo poi di farne sorvegliare le mosse ai suoi agenti.
Identica idea sovviene a Diabolik ed Eva, così da appropriarsi delle monete e dell’ingente bottino, fino a quando “il dannato ispettore” e “il maledetto criminale” non si troveranno a seguire la stessa pista e trovarsi infine faccia a faccia in un’incresciosa situazione…
Confermando quanto scritto relativamente ai due precedenti titoli sulle valide interpretazioni offerte dai principali protagonisti, l’approccio autoriale mi è apparso in quest’ultima realizzazione più movimentato e profondo, libero da prefissati schematismi nel seguire gli stilemi propri del cinema degli anni ’70, tra movimentati split screen e un frenetico ma funzionale ricorso allo zoom.Da rimarcare poi al riguardo una colonna sonora in stile funky, Pivio e Aldo De Scalzi, che prende il via già dalla coinvolgente sequenza iniziale sulla quale si stagliano i titoli di testa con le note di Ti chiami Diabolik (eseguita dai Calibro 35 ed Alan Sorrenti).

Sempre felice la sinergia tra le “pastellose” tonalità della fotografia (Angelo Sorrentino), la cura profusa nella scelta dei costumi (Ginevra De Carolis) e il creativo lavoro sulla scenografia (Noemi Marchica), inteso a congiungere la resa visiva di città come Bologna e Roma nel raffigurare Clerville. Una citazione a parte merita la visualizzazione in un bianco e nero dai toni espressionisti del passato di Diabolik, che prende il via da quel dolente “Non so chi sono” esternato come risposta alla domanda di Ginko che dà il titolo al film e all’omonimo albo (il numero 107 del 4 marzo 1968) di cui costituisce un libero adattamento, con una azzeccata e gustosa caratterizzazione del boss King ad opera di Paolo Calabresi.
Indovinata anche l’accoppiata Eva-Altea, felicemente complici nelle difficoltà. Quindi, andando a concludere e riprendendo quanto scritto, Diabolik. Chi sei? rappresenta, almeno a mio avviso, la degna conclusione di una trilogia che ha avuto il merito non solo di riportare a galla quella miscellanea, spesso geniale, tra intuitiva creatività e sapida artigianalità propria di certe nostre produzioni, ma anche di smuovere quell’appiattimento omologante generato da varie realizzazioni “pronto cuoci”.

Onore al merito per i Manetti Bros., che mantenendosi distanti da mirabilie visive vacuamente spettacolari, sono riusciti ad offrire nella visualizzazione filmica, resa nelle immagini a noi spettatori, quella sensazione immersiva che si prova nella lettura di un albo a fumetti, a cavallo della fantasia, sospesi a mezz’aria tra un balloon e l’ordinarietà quotidiana.
Pubblicato su Diari di Cineclub N.130-Settembre 2024, immagine di copertina da Movieplayer






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