(Movieplayer)

Campo di battaglia, film presentato, in Concorso, all’ 81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e diretto da Gianni Amelio, che ne ha scritto la sceneggiatura con  Alberto Taraglio, trae ispirazione dal romanzo La sfida (2018) di Carlo Patriarca. Va a costituire non solo l’ulteriore conferma di una pregevole autorialità, mai fine a se stessa, ma anche, e soprattutto, un sentito e vibrante atto d’accusa nei riguardi di quei soffocanti miasmi generati dall’assurda condotta belligerante, sacrificando l’innocenza di giovani esseri su tale improvvido altare.

Quanto scritto lo si avverte già dal piano sequenza iniziale, inteso a mettere in evidenza gli orrori e le nefandezze inerenti ad ogni conflitto. Siamo nel 1918, sul finire della Prima Guerra Mondiale, in Italia, nei pressi delle trincee si ergono lugubri le masse indistinte dei corpi degli uomini periti nell’ultima sanguinosa azione, impilati gli uni sugli altri. I superstiti frugano nelle tasche delle divise insanguinate alla ricerca di danaro, oggetti di valore o, bene forse ancora più prezioso, un semplice tozzo di pane raffermo, vago imbonitore dei morsi della fame.

Ed ecco che una mano fuoriesce dal mucchio, a reclamare  un refolo vitale, in rappresentanza di quanti si appigliano all’essere rimasti in vita pur feriti anche gravemente, in quanto in seguito a ciò potrebbero far ritorno a  casa, così da non prendere più parte a quella carneficina imposta dall’alto della ragion di Stato, in nome di un fallace senso di supremazia che porta l’uomo ad annientare se stesso.

Da una trincea si passa ad un’altra, l’interno di una camerata d’ospedale, dove giacciono a letto i militi feriti, a volte in seguito ad atti di autolesionismo, quando non fingono turbe mentali, presto sgamati dall’inflessibile Ufficiale Medico Stefano Zorzi (Gabriel Montesi), che li considera nient’altro che “ricambi” da mandare nuovamente al fronte, proprio lui che lo ha evitato grazie ai potenti appoggi del papà altolocato.

“Spintarelle” che hanno interessato  pure il collega, di pari grado, che lo coadiuva, Giulio Farradi (Alessandro Borghi), amico d’infanzia e compagno di studi universitari, anche se, disgustato dal sangue, avrebbe preferito dedicarsi alla ricerca scientifica. Lui però sembra perseguire ben altri propositi, come non tarderà a notare l’infermiera della Croce Rossa Anna (Federica Rossellini), anche lei compagna di studi in Medicina, che ha dovuto però rinunciare alla laurea causa atavici pregiudizi e la mancanza di una famiglia influente che potesse sostenerla…

Amelio avvolge “classicamente”  la narrazione in immersivi piani sequenza e primi piani, impiega con fare “indagatore” la macchina a mano attraverso i letti dell’ospedale, predisponendo come su di una scacchiera diversi campi di battaglia, quelli materiali, già descritti, la trincea, la camerata ospedaliera, cui vanno ad aggiungersi quelli che prendono corpo dallo scontro tra le contrastanti psicologie dei tre protagonisti, ulteriori eserciti l’un contro l’altro armati, ottimamente rese nelle loro interpretazioni in particolar modo da Montesi e Borghi, mentre a mio avviso il personaggio di Anna avrebbe meritato un maggiore approfondimento ed una caratterizzazione più incisiva.

Ecco allora che alla retorica del servire la patria senza se e senza ma, quale precipuo ed imprescindibile dovere di ogni cittadino, si contrappone  la messa in atto di una straniante compassione, intesa alla pura e semplice salvaguardia dell’essere umano in quanto tale, preservandone le potenzialità aduse a qualsivoglia attività che non sia il reciproco scannarsi in nome di pomposi e retorici discorsi sull’onore, quest’ultimo da coltivare e preservare per il tramite di eroiche gesta elargite contro quel nemico “dall’identico umore, ma con la divisa di un altro colore” (La guerra di Piero, Fabrizio De André, 1964).

La guerra trova dunque visualizzazione in tutta la sua crudezza ed inutilità, all’interno di una Italia diversificata nell’incomprensione reciproca dei vari dialetti ma unita dal sangue sparso dalla moltitudine di agnelli sacrificali sottratti da un giorno all’altro all’affetto dei loro cari, cui magari davano sostentamento o comunque un contributo lavorativo.

Accanto alla sequenza iniziale ritengo possa accostarsi, accomunata da una vivida emozionalità, quella inerente la fucilazione, seduta stante, senza processo, di un  soldato il cui autolesionismo è stato scoperto, ripresa frontalmente, come se il plotone intendesse puntare simbolicamente verso noi spettatori, così da risvegliarci dal nostro torpore esternato di fronte alle guerre attuali, tra un cambio di canale e un like di circostanza.

Sorta di “film nel film”, poi, ed ulteriore riferimento ai tempi nostri, l’insorgere dell’epidemia nota come “influenza spagnola”, che andrà a mietere vittime anche tra i civili, quasi una rivalsa della Natura nei riguardi di un’umanità protesa all’autodistruzione, nella colpevolezza  di rendere protagonista assoluta un’immane barbarie  che finirà con l’ accomunare vincitori e vinti all’interno di una evidente sconfitta, le fumanti macerie di un’umanità perduta, sulle quali si staglia, nitido ed incontrovertibile, l’agghiacciante silenzio a  paventarsi quale sola risposta possibile alla domanda “perché?

Unica ancora di salvezza, sembra suggerire il finale che si chiude su di un dialogo tra Anna  e un bambino malato, ritrovare un opportuno senso  di compassionevole misericordia. Campo di battaglia, andando a concludere, pur potendo apparire a tratti algido nella sua aura figurativa tesa ad illustrare realisticamente crudezza e retorica bellica senza cedere alla vacua spettacolarità e alla facile emozionalità (pregevole il contributo della fotografia di Luan Amelio Ujkaj), con qualche stridore a livello di scrittura avvertibile, personale sensazione, dalla seconda parte in poi, è da considerarsi un film dall’indubbia valenza visiva e contenutistica.

Offre infatti spazio alla “grande illusione” che ogni guerra insorta sulla Terra possa essere l’ultima in nome di una ritrovata umanità, riprendendo al riguardo un dialogo tra due protagonisti del celebre film di Jean Renoir (La Grande illusion, 1937), il tenente Maréchal (Jean Gabin) e il pari grado Rosenthal (Pierre Fresnay), con il primo ad esclamare Il faut bien qu’on la finisse cette putain de guerre… en espérant que c’est la dernière,  ricevendo come risposta Ah, tu te fais des illusions!

E al pari di un altro protagonista della citata pellicola, anch’essa ambientata nel corso del Primo Conflitto, il Capitano von Rauffenstein interpretato da Erich von Stroheim, l’umanità tutta ha ormai tagliato da tempo quel fiore simboleggiante la speranza che ci si potesse sollevare “al di sopra della propria avidità, del proprio odio, della propria brutalità” (Charlie Chaplin, The Great Dictator, 1940), coltivato a fatica da pochi uomini di buona volontà all’interno della fortezza in cui ci si è rinchiusi in nome di un individualismo ad alto tasso d’intolleranza ed indifferenza.

Immagine di copertina: Alessandro Borghi, da Movieplayer

3 risposte a “Campo di battaglia”

  1. Una recensione veramente interessante dove approfondisci benissimo la tematica centrale del film che sembra trattata molto bene e non si perde mai di vista. Dovrei vedere il film in questi giorni e spero veramente che possa piacermi, visto anche che per quello che tratta sembra davvero attuale.

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    1. Avatar Antonio Falcone
      Antonio Falcone

      Grazie di cuore. Non è un film perfetto a livello di scrittura, però girato e interpretato benissimo, a mio avviso, e le tematiche affrontate sono (purtroppo) molto attuali. Se lo vedrai e ne scriverai leggeró con piacere la tua recensione, grazie di nuovo, un caro saluto .

      Piace a 1 persona

  2. […] sceneggiatura non originale: Gianni Amelio, Alberto Taraglio (Campo di battaglia). Francesco Costabile, Vittorio Moroni, Adriano Chiarelli (Familia). Valeria Golino, Francesca […]

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