
Il tempo che ci vuole, scritto e diretto da Francesca Comencini, presentato, Fuori Concorso, vien da chiedersi perché, all’81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, si è palesato alla visione come un vivido flusso di emozioni e ricordi, che dalla mente dell’autrice trova visualizzazione all’interno di una messa in scena intesa a rappresentare, con suggestioni oniriche, un rapporto tra arte e vita traente origine da quello fra un padre, Luigi Comencini (reso magnificamente da Fabrizio Gifuni), ed una figlia, Francesca, da quando quest’ultima aveva circa 8 anni (interpretata da Anna Mangiocavallo) e fino all’età adulta (una bravissima, intensa, Romana Maggiora Vergano).
Mi ha particolarmente colpito nel corso della visione il simbiotico legame tra regia e fotografia (Luca Bigazzi) nel metaforizzare visualmente il rapporto “esclusivo” tra Luigi e Francesca all’interno della loro abitazione, nella scelta di escludere gli altri componenti della famiglia e nell’attribuire al corridoio che separa le reciproche stanze il senso proprio di luogo mnemonico, quale simbolo del passaggio tra le varie età.
Se all’interno della casa o anche nel raffigurare la realtà esterna tutto appare scabro ed essenziale, ridimensionato e contestualizzato a livello delle due figure principali, le cose cambiano sul set dello sceneggiato televisivo Le avventure di Pinocchio, siamo nel 1972, dove tra attori, comparse, gente del posto o figuranti, tutto diventa caotico e movimentato, pur nell’ammonimento rivolto dal regista, inteso a ricordare che “prima viene la vita, poi il cinema”.
Francesca è affascinata da quel mondo, ma ne è anche spaventata, così come lo è anche dalla figura paterna, che comunque le riserva tutta una serie di attenzioni, sempre intese a rispettarne la natura fanciullesca, certo, instradandola con rispetto e compostezza verso l’età adulta. Un qualsiasi contatto con la realtà circostante, avendo per l’appunto il padre come modello comportamentale, sarà per lei del tutto simile alle fauci spalancate del pescecane/balena che le procurava tanta paura nel vederle raffigurate tra le pagine del libro di Pinocchio che il babbo consultava per la citata trasposizione televisiva.
E così, una volta divenuta adulta, “senza un sogno, senza una vocazione”, sarà facile per Francesca uniformarsi ai nascituri movimenti contestatori del potere, siamo nei cosiddetti anni di piombo, acquisendo una identità per interposta persona e divenendo presto schiava della droga, momentaneo ed etereo Nirvana. Venirne fuori non sarà facile, ma ci penserà ancora una volta papà Luigi, sarà necessario “il tempo che ci vuole”, apprendere che la risposta ad ogni fallimento non può essere che il ritentare, il “fallire di nuovo”, “fallire meglio”, così come è capitato al genitore, lo stesso varrà per lei una volta scelta la strada intraprendere, “si cade per imparare a rimettersi in piedi” (Thomas Wayne al figlio Bruce, Batman Begins, Christopher Nolan, 2005).
E il cinema, pur secondario rispetto alla ritualità esistenziale, andrà a rappresentare il tramite, in virtù del suo fluire immaginifico, per poter superare o quanto meno mitigare le asperità incontrate lungo il cammino. Comencini narra determinati passaggi storici del nostro paese (il rapimento di Aldo Moro, ad esempio) per il tramite dei telegiornali e dà loro spazio attraverso le reazioni dei personaggi al riguardo, evita la facile emozionalità così come la retorica gratuita, risolve felicemente la resa propria dello strazio del drogarsi e dello scoperta da parte del padre della caduta in quel buio perdersi (la sequenza che vede Luigi quasi gettare giù la porta del bagno è esemplare, forse la più bella del film, a mio avviso).
Inframezza il tutto con preziosi filmati d’epoca, spezzoni di quei film che il babbo ha salvato dal macero, andando poi a costituire insieme a Lattuada la Cineteca Italiana per la loro conservazione, come quelli relativi al Pinocchio di Giulio Antamoro, 1921, o riguardanti Dagli Appennini alle Ande, ottavo episodio del serial cinematografico Cuore, 1916, Umberto Paradisi, adattamento del romanzo di Edmondo De Amicis.
In particolare è proprio una sequenza di questo film ad aprire e chiudere, circolarmente, Il tempo che ci vuole, simboleggiando una inedita presa di coscienza dell’autrice, un riaffacciarsi al mondo nella definitiva accettazione della figura paterna, prendendo consapevolezza del suo modo d’essere nella vita e nel rapporto col cinema, cui ha offerto tutta la sua vitalità e il suo impegno, restituendone a noi spettatori la portata essenziale di sogno condiviso.
Immagine di copertina: Movieplayer






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