
Presentato nella sezione Freestyle della 19ma Festa del Cinema di Roma, dove ha conseguito il Premio Miglior Opera Prima, ex-aequo con Bound In Heaven di Huo Xin (inserito nella sezione Progressive Cinema), Ciao bambino rappresenta il felice esordio del regista Edgardo Pistone nei lungometraggi. Autore anche della sceneggiatura insieme ad Ivan Ferone, Pistone mette in scena un particolare racconto di formazione sullo sfondo di una realtà disagiata, il Rione Traiano alla periferia di Napoli, che però, anche in virtù della fotografia in un “neutro” bianco e nero di Rosario Cammarota, assume le sembianze di un qualsivoglia quartiere sito ai margini di una qualsiasi grande città, “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi/ Ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi”(La città vecchia, Fabrizio De André, Elvio Monti, 1965) .
Qui vive Attilio (Marco Adamo), 17 anni, insieme alla madre e al padre, cocainomane, uscito da poco di galera e con un pesante debito da saldare nei confronti del socio, lo strozzino Vittorio (Pasquale Esposito). Un tuffo nel mare di Posillipo con gli amici di sempre, un refolo gioioso e vitale a soffiare sulla squallida ritualità giornaliera, quella che porta i giovani a rubare degli oggetti di una coppia di bagnanti, una macchina fotografica, una catenina, un orologio, così da ricavare qualche soldo rivolgendosi al laido ricettatore Martinelli (Salvatore Pelliccia). Sarà proprio quest’ultimo ad offrire un lavoro ad Attilio, fare da protettore ad Anastasia (Anastasia Kaletchuk), giovane ucraina costretta a prostituirsi.

Un’auto abbandonata su uno squallido spiazzo a far da sala d’attesa, una iniziale, reciproca, diffidenza che presto si trasformerà in qualcosa di più profondo, la libertà di un amore tra le sbarre dell’abituale degrado, il sogno di una normalità costretto ad infrangersi sugli scogli di una realtà che ti costringe a crescere troppo presto nel mettere in atto delle scelte ben precise… La visione di Ciao bambino mi ha emozionalmente scosso, facendo sì che riaffiorasse, in primo luogo, il ricordo di un autore come Pier Paolo Pasolini, andando con la mente sia al romanzo Una vita violenta (Garzanti, 1959) che al film che lo vide esordire in qualità di regista, Accattone, 1961.
Mi ha fatto propendere a quanto ora scritto l’uso del dialetto, l’ andamento narrativo e visivo teso a creare una “dimensione altra” ma sempre calata nel reale, tra minimi movimenti della macchina da presa, l’alternanza fra primissimi piani, anche della realtà circostante, con i casermoni periferici ad incombere quali ulteriori protagonisti, i campi lunghi, le carrellate, l’impiego nella colonna sonora di brani di musica classica a ricercare lo straniante contrasto tra ciò che è “alto”, colto, e la bassezza greve della bestialità umana.

La tematica dominante resta comunque quella del passaggio delle colpe dei padri ai figli, come evidenziato dalla voce narrante di Attilio ad inizio film, le cui parole verranno riprese, dando vita ad una compiuta circolarità narrativa, da Anastasia sul finale: “L’errore più comune è sempre quello di dividere il mondo in due parti, i buoni e i cattivi, il bianco e il nero, i grandi e i piccoli. E tutto quello che ha uno l’altro lo odia e lo vuole nello stesso momento, e quindi si può dire che sono la stessa cosa. Sempre più spesso gli adulti commettono uno sbaglio: considerano i ragazzi esseri liberi. È un pensiero malinconico, un’idea romantica la loro, per due motivi. Il primo, loro sono i più grandi nemici della libertà, il secondo, non lo conosco”.
Attilio ed Anastasia, interpretati con naturale resa immedesimativa dagli esordienti Adamo e Kaletchuck, vanno a rappresentare una sorta di purezza non del tutto corrotta dalle storture del mondo, esternante il desiderio di una esistenza che si possa definire umanamente normale, distante dai consueti parametri imposti di un benessere pronto uso. Attento a non cadere nella trappola della facile sociologia e del sentimentalismo ricattatorio, Pistone rimarca la straniante bellezza di due anime fondamentalmente simili che va a stagliarsi sullo scenario proprio di ogni ambiente dove, anche considerando la disgregazione silente di qualsiasi valore umano cui fare riferimento, più che la possibilità di meditare su cosa sia bene e cosa sia male si è indotti ad assecondare una logica che vede le due entità confondere o sovrapporre i rispettivi confini, fino ad assumere contorni ambigui ed indefiniti.
Una nebulosa sospensione nell’ambito di un circoscritto limbo, popolato da sempre nuove vittime sacrificali, coloro che porranno in essere determinate decisioni, ingenuamente ritenute risolutive, ma comunque idonee ad infondere un inedito senso di speranza a chi resta, travalicante la pura e semplice sopravvivenza.
Già pubblicato su Lumière e i suoi fratelli- Cultura cinematografica e crossmedialità–Immagine di copertina Ufficio Stampa






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