In, Concessione della licenza CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. (Legge 30 marzo 2004, n.92 – Istituzione del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati).

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Dalla metà di aprile del ’45, in Istria iniziò una massiccia offensiva delle forze partigiane contro quelle naziste. Il 20, a Santa Domenica, attaccarono una colonna in ritirata verso Trieste. I soldati tedeschi, bloccati sulla strada che da Albona portava a Chersano, vennero presi tra due fuochi. Il tuonare dei cannoni in paese si avvertiva come se stessero sparando sul nostro abitato. Nelle retrovie, i ragazzi aiutavano trasportando i feriti al centro di primo intervento medico approntato a Fianona, da oltre una settimana occupata dai titini. Quasi ventiquattr’ore di combattimenti, prima che i tedeschi si arrendessero. Nei giorni seguenti il paese divenne luogo di smistamento dei prigionieri. Colonne appiedate, scortate dai partigiani, andavano e venivano. Il territorio era stato liberato e ci illudemmo per una pace che non arrivò.

Maggio fu il mese dell’odio brutale. L’epurazione fu massiccia e feroce. Arresti, deportazioni, uccisioni. Il timore per la presenza di delatori alimentava un clima di sospetto. Venimmo colpiti soprattutto noi italiani, considerati in massa fascisti. Bastava un nulla per essere incriminati con questa accusa. Le torture subite dai colpevoli, prima di essere infoibati dovevano essere inimmaginabili. Me ne resi conto la volta in cui i titini, a notte fonda, portarono dei prigionieri nel palazzo disabitato, dove gli ultimi ad alloggiare erano stati i soldati del presidio tedesco.

Nessuno li aveva visti arrivare. Lo scoprimmo il giorno dopo, quando da più bisbigli si seppe che chi abitava nei pressi era stato svegliato, nel cuore della notte, da grida provenienti dalla casa. Si sussurrò che qualcuno, nascosto da un’anta di una finestra, aveva guardato mentre venivano portati via. Pare fossero una trentina, scalzi, senza camicia, le mani legate dietro la schiena, a stento si reggevano in piedi e li spingevano con la punta dei fucili, attraverso i campi, in direzione della miniera di carbone poco distante. Tutti sapevano cosa c’era lì. Dovette essere la speranza che le voci fossero partite da un paesano andato a letto ubriaco, a cui altre bocche avevano aggiunto del loro, a indurmi a entrare nel palazzo. Sarebbe stato meglio non l’avessi fatto. Quello che vidi non lasciava spiraglio ad equivoco.

In due stanze attigue, sulle pareti, sul pavimento, tracce di sangue ovunque. M’ero sempre rifiutato che potesse essere vera una voce che girava sui prigionieri assetati, su quello che gli veniva dato da bere. In un angolo trovai un fiasco  con l’imboccatura sporca di saliva rossastra, pieno per metà. Annusai. Era piscio. Nella scarpa si infilzò uno spezzone di fil di ferro. Si diceva lo usassero per bloccare polsi, caviglie e legare i prigionieri a due a due. Uno l’ammazzavano, l’altro lo lasciavano vivo, prima di infoibarli. Non dissi a nessuno di esserci stato, non volevo lo sapessero in famiglia. Avrebbero fatto domande e avrei risposto. Volevo proteggerli, per quanto possibile, dalla certezza degli orrori. (Estratto dal capitolo 4, Parte Terza, del romanzo Pepi l’americano, Rossella Scherl, Rubbettino Editore, 2021)

Foto di copertina:  Giovanni Poso – http://www.naviearmatori.net/gallery/viewimage.php?id=7916, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3778232

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