Gene Hackman (Christopher Michael Little, Concessione di licenza CC BY 2.0, via Wikimedia Commons)

Lo scorso mercoledì, 26 febbraio, ci ha lasciati l’attore Gene Hackman (San Bernardino, California, 1930), rinvenuto morto dalla polizia nella sua abitazione, insieme alla moglie ed uno dei loro tre cani. Le circostanze del decesso sono ancora tutte da chiarire ma, sinceramente, almeno in base alla mia visione della vita e dell’arte cinematografica nello specifico, non me ne curo più di tanto, ritenendo ben più rilevante ricordare quanto le sue interpretazioni abbiano dato al cinema a partire dagli anni ’60, quando, dopo aver recitato in alcuni spettacoli off-Broadway e svolto disparati mestieri per mantenersi, prese parte a vari film (a partire da  Lilith, Robert Rossen, 1964), per poi iniziare a farsi notare qualche anno più tardi in Bonnie and Clyde (Arthur Penn, 1967), dove la sua interpretazione di Buck Barrow, fratello di Clyde (Warren Beatty), gli fece conseguire la nomination all’Oscar come Miglior Attore non Protagonista.

Quattro anni dopo eccolo ottenere l’ambita statuetta per il ruolo da protagonista in The French Connection di William Friedkin, il detective Jimmy Popeye Doyle della Squadra Narcotici di New York. Qui trovava definitiva affermazione lo stile recitativo che gli era proprio, nella congiunzione tra istintività ed estrema attenzione nell’aderire al personaggio. Indimenticabile l’espressione facciale in apparenza granitica, ma con uno sguardo propenso  a rivelare ora rabbia repressa ora la propensione a “dar fuoco alle polveri”, fino a sfociare in modalità d’azione piuttosto spicce e violente. Proprio su questo film intendo soffermarmi per ricordare la figura di Hackman, preferendo non dilungarmi nel consueto “coccodrillo” e concludendo la disamina delle sue capacità recitative evidenziandone la particolare duttilità nell’affrontare anche ruoli secondari, espressa in vari generi, quasi sempre ammantando i personaggi interpretati di una peculiare ambiguità, curiosamente suadente.  

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(Movieplayer)

Marsiglia, anni ’70. Alain Charnier (Fernando Rey) cela sotto le sembianze di uomo elegante e raffinato la sua attività malavitosa, gestendo un’organizzazione dedita al contrabbando di eroina. Sulle sue tracce vi è un poliziotto, ma questi viene freddato da Pierre Nicoli (Marcel Bozzuffi), braccio destro di Charnier. Intanto a New York, quartiere di Brooklyn, i detective Jimmy Popeye Doyle (Gene Hackman) e Buddy Cloudy Russo (Roy Scheider), malvisti da superiori e colleghi per i loro metodi non propriamente ortodossi, si stanno prodigando, tra appostamenti, pedinamenti e perquisizioni, nell’individuare chi gestisca il traffico di droga in città. Indagano in particolare su Salvatore Sal Boca (Tony Lo Bianco) e la moglie Angie (Arlene Farber), che intrattengono contatti con l’avvocato Joel Weinstock (Harold Gary).

Fra molte difficoltà, Popeye e Cloudy riescono a convincere il loro comandante a far sì che possano continuare ad occuparsi del caso: si provvederà ad intercettare i telefoni dei sospettati e i due saranno affiancati da altrettanti agenti federali, Bill Mulderig (Bill Hickman) e Clyde Klein (Sonny Grosso). La loro costante attività li porterà alla scoperta di una valida pista, venendo a conoscenza che da Marsiglia dovrebbe presto arrivare un notevole quantitativo di eroina, anche se non se conoscono le modalità. L’astuto Charnier, intanto, ha provveduto a nascondere la droga, per un valore pari a  32 milioni di dollari, nell’automobile di un amico, l’ignaro attore televisivo Henri Devereaux (Frédéric de Pasquale), che intende recarsi a New York in nave…

Roy Scheider e Gene Hackman (Movieplayer)

Sceneggiato da Ernest Tidyman sulla base del libro-inchiesta di Robin Moore, inteso a ricostruire il sequestro ad opera dei detective Eddie Egan e Sonny Grosso di un grosso carico di eroina al centro di un traffico internazionale, tra gli anni ’60 e ’70, che vedeva coinvolte la malavita di Marsiglia e quella statunitense, The French Connection vanta la regia di William Friedkin, tra i maggiori innovatori di generi cinematografici quali poliziesco ed horror, funzionalmente asserviti ad una personale indagine etica, relativa a quel tormento esistenziale proprio di quanti si avvedono della fragile delimitazione tra bene e male. In particolare Friedkin fu tra i componenti dei Movie Brats, per lo più giovani talenti provenienti dal cinema indipendente e nuovi autori formatisi in televisione, che all’inizio degli anni ’70 contribuirono alla nascita del movimento noto come New Hollywood, ispirato soprattutto dalla “politica degli autori”, i diritti del regista quale padrone assoluto del linguaggio cinematografico.

Rielaborando i codici propri della controcultura e la mitologia che ne derivava, andava quindi a delinearsi “l’altra faccia dell’America”. Scomparivamo ottimismo, perfezione, eroismo, sostituiti da dubbio, voglia di fuga, disadattamento e, con il procedere degli anni Settanta, angoscia, paura, sconfitta, tutti stati d’animo sottolineati cinematograficamente da un’evidente revisione dei generi. Ecco allora un poliziesco, pur influenzato, nelle scelte stilistiche e narrative, come rinvenibile in varie fonti, da Le Samouraï (Jean-Pierre Melville, 1967), contraddistinto comunque da una inedita connotazione delle caratteristiche proprie del genere. Si predilige una linea narrativa asciutta, documentaristica, esaltata dalla fotografia di Owen Roizman. Quest’ultimo ritrae una Grande Mela squallida e dolente, sulla quale si riversa l’onda oscura dell’animo umano, rimarcando, anche grazie alle intense interpretazioni attoriali, Hackman su tutti, l’ambiguità delle linee di confine tra bene e male, senza dimenticare un sano intrattenimento.

Fernando Rey (Movieplayer)

A tale ultimo riguardo è ovviamente da incorniciare la memorabile sequenza che vede Popeye sfrecciare a tutto gas, a bordo di un’auto “requisita” ad un cittadino, lungo la strada che corre sotto i binari della metropolitana sopraelevata, così da raggiungere la fermata prevista ed agguantare lo scagnozzo Nicoli, che intanto sta seminando il panico all’interno del convoglio. Qui trova esaltazione il lavoro sul montaggio orchestrato da Jerry Greenberg, notevole lungo tutto l’arco narrativo, in particolare nel visualizzare l’incedere dei vari appostamenti ed inseguimenti (anche a piedi, come quello che vede coinvolti Popeye e Charnier, nel sotterraneo della metropolitana, col francese a farsi beffe dell’ostinato detective).

Nel ricercare il realismo Friedkin sembra avallare la casualità, l’accadimento così come si materializza dinnanzi all’obiettivo, anche nelle sequenze d’azione, sostenute, riprendendo quanto testé scritto, da un montaggio particolarmente frenetico. I componenti della cerchia malavitosa newyorkese, al pari dei rappresentanti delle forze dell’ordine, paiono avere quali uniche remore alle loro azioni il rispetto di stessi e del proprio atteggiamento esistenziale. L’ atmosfera che gravita intorno ad essi può definirsi certamente ambigua, avvolta dalle brume proprie dell’ineluttabilità del destino, che finirà per rendere definitive determinate condotte umane, vedi l’amaro finale, dove la vittoria della legalità ancora una volta non assumerà contorni propriamente netti o definiti, come esplicitato ulteriormente dalle didascalie sui titoli di coda.

Hackman e Scheider (Movieplayer)

Evidente comunque, pur nella comunanza di una quotidianità vissuta sempre sul filo del rasoio, il differente tenore di vita inerente a “guardie e ladri”: esemplare al riguardo la sequenza in cui Doyle, impegnato in un appostamento, batte i piedi per il freddo e insieme a Russo placa i morsi della fame con una fetta di pizza, mentre Charnier e il suo tirapiedi gustano prelibatezze e bevono vini raffinati all’interno di un lussuoso ristorante. The French Connection ottenne otto candidature ai 44esimi Academy Awards (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore Protagonista, Miglior Attore Non Protagonista*, Miglior Sceneggiatura non Originale, Miglior Montaggio, Miglior Fotografia e Miglior Sonoro*) e conseguì cinque statuette (Miglior Film, Miglior Attore Protagonista, Miglior Regista, Miglior Montaggio e Miglior Sceneggiatura non Originale).

(MyMovies)

Nel 1975 ne venne girato un seguito, The French Connection II, valido ma forse non così “reazionario” come il precedente, diretto da John Frankenheimer su sceneggiatura di Alexander Jacobs, Robert Dillon, Laurie Dillon e sempre con Hackman protagonista nei panni del caparbio Popeye, ora inviato a Marsiglia e pronto a mettersi sulle tracce di Charnier (Rey). Alterno destino, infine, per un terzo seguito: quello che doveva essere l’episodio pilota di una serie televisiva da mandare in onda sulla NBC, divenne un film per la tv, Popeye Doyle, diretto da Peter Levin e sceneggiato da Richard Di Lello, con Ed O’Neill nei panni di Doyle, mentre il numero tre cinematografico vide la stesura di una sceneggiatura ad opera di David Shaber che comprendeva nuovamente Hackman protagonista, ma il cambio di regia comportò l’abbandono dell’attore, per cui il progetto si concretizzò nel film  Nighthawks (I falchi della notte,1981), diretto da Bruce Malmuth e Sylvester Stallone quale interprete principale.

* Roy Scheider

* Theodore Soderberg e Christopher Newman

Immagine di copertina: Gene Hackman in una scena di French Connection (Movieplayer)

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