
Chicago, giovedì 6 giugno 1929. La copia quotidiana del Chicago Examiner sta per andare in stampa. In prima pagina si riporta l’ormai prossima condanna a morte dell’anarchico Earl Williams (Austin Pendleton), colpevole di omicidio. Ha infatti ucciso, sparandogli, un poliziotto di colore (accidentalmente, ma le “simpatie rosse” costituiscono un’aggravante…) e nel cortile della prigione si sta allestendo il patibolo per l’impiccagione, che avverrà alle ore 7 del mattino seguente. Al piano superiore, intanto, in sala stampa, i giornalisti rappresentanti delle varie testate sono in attesa dell’esecuzione, ingannando l’attesa giocando a poker, certi che a nulla potrà servire la perizia psichiatrica che un luminare austriaco, il Dr. Max J. Eggelhofer (Martin Gabel), dovrà eseguire nei confronti di Earl.
Ormai per l’opinione pubblica questi non è altro che un “bolscevico sovversivo”, tesi avallata d’altra parte dalla stessa stampa, che ha dato ampio spazio alle dichiarazioni del sindaco (Harold Gould) e dello sceriffo “Honest Pete” Hartman (Vincent Gardenia), rese in piena campagna elettorale, così da assicurarsi nuovamente le simpatie degli elettori. Nel variegato gruppo di “scribacchini” manca però la penna di punta del Chicago Examiner, il brillante Hildebrand, Hildy, Johnson (Jack Lemmon), in procinto infatti di comunicare al cinico e sprezzante direttore Walter Burns (Walter Matthau) che non solo ha intenzione di trasferirsi a Philadelphia, per convolare a nozze con Peggy Grant (Susan Sarandon), ma anche di abbandonare il mondo del giornalismo per lavorare in un’agenzia pubblicitaria di proprietà dello zio della futura consorte…
The Front Page, diretto da Billy Wilder, autore anche della sceneggiatura insieme a I.A.L. Diamond, costituisce il terzo adattamento dell’omonima commedia teatrale (1928), scritta da Charles MacArthur e Ben Hecht, dopo la prima trasposizione del 1931 ad opera di Lewis Milestone, che ne riprendeva il titolo, e His Girl Friday (1940), screwball comedy sceneggiata da Charles Rederer e diretta da Howard Hawks, cui si deve la felice intuizione di mutare il personaggio di Hildy del testo originario da maschile a femminile (Geraldine Russell, contrapposta a Cary Grant nel ruolo di Burns). Notoriamente contrario ai rifacimenti di opere già messe in scena da altri (“Se un film è bello non dovresti rifarlo, se non è bello perché rifarlo?”), Wilder, con la collaborazione del citato sceneggiatore di fiducia, decise di non attualizzare la trama all’epoca di realizzazione, ritenendo che negli anni ’70 i giornali in genere non fossero più un mezzo d’informazione dominante.
Rimembrando anche i suoi trascorsi di giornalista, riportò quindi la narrazione al 1929. Se già con Ace in the Hole (1951), il cineasta austriaco naturalizzato statunitense aveva dato vita ad un’ amara e lungimirante riflessione sulla spettacolarizzazione degli eventi di cronaca, in The Front Page teatralizza con la consueta maestria un’acre satira sul potere costituito e sul mondo del giornalismo, facendone risaltare, impietosamente, ogni cinico gioco opportunistico messo in campo per preservarsi, rispettivamente, un posto sugli alti scranni e i titoli cubitali urlati in prima pagina.
Ecco allora la sequenza di apertura, sulla quale scorrono i titoli di testa, dove si illustra la composizione e la stampa del giornale, cui segue subito dopo il parallelo con la costruzione del patibolo, a raffigurare metaforicamente due diverse modalità di annientare la vita delle persone, o, ancora, la trasformazione delle notizie ad opera dei giornalisti delle differenti testate, via via sempre più romanzate partendo dalla reale informazione di base. Spazio anche alla necessità del potere di costruire un “utile nemico” cui scaricare la colpa dei propri insuccessi, vedi i vaneggiamenti sulle orde di bolscevichi pronte a sopraffare la garanzia della libera espressione del popolo americano, esternati dall’ “onesto sceriffo” (un eccellente Vincent Gardenia) e dal sindaco suo degno compare, tutto “vizi privati e pubbliche virtù”.
Come già sottolineato da molti, Wilder sembra non curarsi di come il cinema americano stia oramai cavalcando la “nuova onda” di quel rinnovamento noto come “New Hollywood”, inteso a rielaborare il linguaggio proprio della controcultura e la mitologia che ne derivava, per cui gira una commedia che si rifà agli stilemi più classici, omaggiando anche le comiche del muto (la sequenza delle auto della polizia a tutto gas lungo le arterie cittadine e l’ambulanza che perde per strada il trasportato), avallando una rappresentazione teatrale, caratterizzata dall’assenza della colonna sonora (è presente nei titoli di testa e di coda), sostituita dall’efficace ritmicità e musicalità dei dialoghi.
Evidente, nell’essenzialità scenica unita ad una pressoché perfetta struttura narrativa, il giusto risalto offerto tanto ad ogni inquadratura quanto alle singole interpretazioni attoriali, con una particolare attenzione riservata al serrato scambio di battute, acide e sarcastiche, fra i vari personaggi, come le chiacchiere dei giornalisti che giocano a carte in attesa dell’esecuzione nella sala stampa del tribunale, o i colloqui tra sindaco, sceriffo e psichiatra, quest’ultimo ovviamente freudiano e propenso a ricondurre ogni problema al sesso, senza dimenticare la circuizione messa in opera dal primo cittadino verso il messo del governatore recante con sé la lettera in cui si comunica la sospensione della condanna.
Un articolo a parte meriterebbe l’interazione tra i due protagonisti, Lemmon e Matthau, i quali palesano caratteri che, pur nelle differenze, si rivelano in fondo similari, ponendo il giornale, la notizia ad ogni costo e possibilmente in anteprima, al di sopra di tutto, affetti compresi. Una coppia la cui potenzialità nel gioco tra opposizione delle diverse personalità e complementarietà nella risoluzione finale, era stata sperimentata proprio da Wilder (The Fortune Cookie, 1966) e poi consolidatasi in pellicole successive che si sono succedute negli anni (The Odd Couple, Gene Sacks, 1968; Buddy Buddy, 1981, Wilder; Grumpy Old Men, Donald Petrie, 1993, e il suo seguito, Grumpier Old Men, Howard Deutch, 1995; Out to Sea, Martha Coolidge, 1997; The Odd Couple 2, Deutch,1998).
Anche Hildy, infatti, è profondamente attaccato al lavoro, ma a differenza di Walter, unisce alla fermezza una certa sensibilità, che sa rendere funzionale alla professione, offrendo un tocco d’umanità, pur lieve. A dominare, infatti, è pur sempre la disincantata e pessimista visione del mondo propria di un autore come Wilder, dove, nella cornice di un beffardo, pungente, sarcasmo, cinismo ed opportunismo si stringono la mano per dar vita ad un’alleanza proficua, in particolare ove vi siano persone capaci di far volgere qualsivoglia evento a loro favore, anche sotto il velo di nobili ideali, quali smascherare la corruzione nell’ambito dell’amministrazione della giustizia.
Il “caso Earl Williams” diviene allora l’emblema del destino di tanti altri individui che, vuoi per ingenuità (il personaggio di Molly Malloy, Carol Burnett, la donna che ha accolto in amicizia Earl dopo la sparatoria, al centro di un romanzetto rosa creato dai giornalisti), vuoi per una sorta di primigenia purezza (Earl in fondo non è altro che un candido idealista), si troveranno sempre in balia del potere, pur forti di una loro integrità morale. Il finale riporta sì il trionfo del giornalismo d’inchiesta sulla corruzione, con le istituzioni messe alle strette e pronte al voltagabbana più spudorato, cui si aggiunge un tocco di apparente romanticismo a scalfire la durezza dell’infido e astuto direttore, però, considerando tutto ciò che abbiamo visto prima, potrebbe essere nient’altro che una breve pausa, in attesa di un nuovo evento che andrà a creare un’identica situazione, magari con personaggi e storie diverse, ma eguale modalità di svolgimento.
La validità della scrittura propria dell’opera teatrale d’origine viene confermata da un ulteriore adattamento, ad opera dello sceneggiatore Jonathan Reynolds, che diede vita nel 1987 al remake Switching Channels, diretto da Ted Kotcheff e con protagonisti Burt Reynolds e Kathleen Turner, film onesto ma tutto sommato inutile, che aggiorna la vicenda, ambientandola all’interno di un’emittente televisiva.
Pubblicato su Diari di Cineclub N. 137 – Aprile 2025






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