
Prosegue la carrellata delle impressioni suscitate dalla visione dei film proiettati nell’ambito della XXXIX Edizione del festival Il Cinema Ritrovato (Bologna, 21-29 giugno), da me scelti, una volta accreditato, in base alle motivazioni espresse in un precedente articolo. Domenica 22 giugno, al Cinema Jolly, all’interno della retrospettiva Lewis Milestone: uomini e guerre (curata da Ehsan Khoshbakht), è stato proiettato All Quiet on the Western Front (All’Ovest niente di nuovo, 1930), tratto dall’omonimo romanzo del 1928 di Erich Maria Remarque, diretto da Milestone, anche autore (non accreditato) della sceneggiatura insieme a George Abbott, Maxwell Anderson, Del Andrews (adattamento), C. Gardner Sullivan (capo supervisione) e Walter Anthony, artefice quest’ultimo delle didascalie per la versione muta.
Un’opera profondamente antimilitarista, la cui narrazione si rivela avvincente anche in virtù di un’ aura figurativa volta ad illustrare realisticamente crudezza e retorica bellica senza cedere alla vacua spettacolarità e alla facile emozionalità, con un ottimo lavoro sul sonoro. Dei giovani che si sono arruolati tra le file dell’esercito tedesco, giù nelle trincee del I Conflitto, tra topi, sporcizia, fango, corpi in disfacimento, è lo sguardo di Paul (Lew Ayres) ad offrire concreta soggettività ad ogni orrore e stortura, trasmutando quanto osservato e provato sulla propria pelle in una percezione oggettiva di ribrezzo e paura.
Non a caso, credo, è la sua figura a rendersi protagonista del finale, diverso da quello del romanzo d’origine: il nostro, tornato al fronte dopo una breve licenza, ha appena il tempo d’incontrare un commilitone, per poi vederlo morire tra le sue braccia dopo un attacco aereo. No, la guerra in trincea non ha nulla di quella esaltazione eroica propagandata a lui e ai compagni di corso da un infervorato professore, si è in attesa di morire, aspettando “corpi di ricambio” da mandare al macello. Il nostro fa dunque ritorno in trincea, nota una farfalla, da civile le collezionava, la sua mano si protende per prenderla, ma nello sporgersi viene notato da un cecchino francese, che lo punta e gli spara, mandandolo a fare compagnia ai tanti morti prima di lui, da ambo le parti.
Ecco, quella mano innocentemente protesa è a tutt’ oggi, cronaca di queste ore, la nostra, a cercare scampoli di umanità in un mondo ormai alla deriva, perso in un progresso prettamente materiale, con le armi pronte a far fuoco e distruggere l’ innocenza, la prima vittima della guerra, come recitava il claim del film Platoon (Oliver Stone, 1986). In Italia la pellicola, che venne girata con due telecamere affiancate, così da montare un negativo come film sonoro e l’altro come International Sound Version per la distribuzione nelle aree non di lingua inglese, fu bloccata, al pari del libro, dalla censura fascista e successivamente respinta dalle varie commissioni di revisione, trovando distribuzione nelle sale nel 1956. All Quiet on the Western Front ottenne due Oscar nel 1930, per il Miglior Film e per il Miglior Regista.

Nel pomeriggio ho invece assistito alla proiezione, al Cinema Europa, del documentario Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo, girato nel 1965 da Pier Paolo Pasolini. Probabilmente con già in testa l’idea di sfruttare varie zone del Meridione italiano quali location del “suo” Vangelo, Pasolini nel corso della narrazione non nasconde la delusione per la modernità di alcune città d’Israele (Tel Aviv, Gerusalemme), mentre appare affascinato dagli elementi arcaici ancora presenti nel mondo arabo. Un’opera tuttora preziosa per i suoi rilievi antropologici (i volti troppo moderni degli ebrei, quelli pre-cristiani degli arabi) e sociali (la visita ad un kibbutz, ad esempio) ma anche per riflettere sulla rilevanza della spiritualità, ancor prima della religiosità, nell’incedere quotidiano.
Infine, bellissima serata, alle 21.45, in Piazza Maggiore, con la presenza della regista francese Coline Serreau ad introdurre Trois hommes et un couffin (Tre uomini e una culla), film da lei scritto e diretto nel 1985. Commedia dai dialoghi brillanti e serrati, forse, al pari di altre realizzazioni dell’autrice, in anticipo sui tempi e quindi, opinione del tutto personale, maggiormente godibile oggi rispetto all’uscita in sala, si palesa alla visione come un’opera che nel succedersi di equivoci e battute diverte e fa riflettere. Pierre (Roland Giraud), Michel ( M. Boujenah) e Jacques (André Dussollier), tre scapoli incalliti e del tutto dediti al culto della propria persona, vedono sconvolta la loro esistenza dall’arrivo improvviso di una bambina, Marie, lasciata di fronte alla porta della loro casa dalla madre Sylvia (Philippine Leroy-Beaulieu), ex ragazza di Jacques.

Lo scricciolo metterà a dura prova ostentate e presunte sicurezze, fino ad incrinare, non di poco, le sabbiose fondamenta di un “piccolo mondo antico”, ovvero quegli stolidi e retrivi retaggi che impediscono di considerarsi nella diversità un’unica grande comunità, in nome di istanze condivise e comuni battaglie da portare avanti. Tre uomini ed una culla ebbe un sequel ad opera della stessa Serreau nel 2003, 18 Ans après, mentre nel 1987 Leonard Nimoy ne girò un remake, Three Men and a Baby, cui seguì Three Men and a Little Lady, 1990, Emile Ardolino.
(Rielaborazione e approfondimento di quanto scritto su Instagram, domenica 22 giugno)






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