
Da oggi, lunedì 14 luglio, ritorna al cinema, in versione restaurata, distribuito da CG Entertainment in collaborazione con Cat People e il contributo di Surf Film, nelle sale aderenti all’iniziativa, 4 mosche di velluto grigio, scritto e diretto da Dario Argento nel 1971. Al terzo film dopo l’esordio con L’uccello dalle piume di cristallo (1970) e il proseguimento nella scia del giallo/thriller con Il gatto a nove code (1971), andando a completare quella che all’interno della sua filmografia viene definita “trilogia degli animali”, Argento consolida il suo stile e al contempo, virando con maggiore decisione verso l’horror, sperimenta nuove strade, così da arrivare, quattro anni più tardi, alla realizzazione di Profondo rosso.
Il batterista Roberto Tobias (Michael Brandon), componente di un complesso rock, da giorni si vede osservato e pedinato da uno strano individuo, vestito di scuro, dall’impermeabile al cappello, mentre gli occhi sono coperti dagli occhiali da sole. Una sera, concluse le prove, accortosi della sua presenza, Roberto decide di seguirlo, fino a giungere all’interno di un teatro, dove, nel corso di una colluttazione, l’uomo misterioso brandirà un coltello, trovando poi la morte, accidentalmente, nello scontro. Il tutto viene fotografato dall’alto del loggione da una persona col volto coperto da una maschera “pupazzesca”, che inizierà a minacciare Roberto, inviandogli a casa i negativi, la carta d’identità dell’ “uomo nero” ed altri oggetti a questi appartenuti, facendolo precipitare in uno spirale di incubi ricorrenti.
A nulla servirà confidarsi con la moglie Nina (Mimsy Farmer), anche perché si verificheranno altri omicidi, vittime persone a lui vicine… In 4 mosche di velluto grigio Argento appare propenso a prediligere, nella scia delle precedenti realizzazioni, più che l’accuratezza della struttura narrativa la fascinazione visiva, offrendo adeguato palcoscenico alle nostre paure e alle nostre angosce. Queste possono trovare improvviso buon albergo all’interno della rituale quotidianità, ammantandola di un’inquietudine dai contorni sinistri e per certi versi malsani, considerando come abbia comunque origine nei meandri di un inconscio reso torbido dai traumi irrisolti relativi ad esperienze esistenziali pregresse, fino ad arrivare ad un’infanzia oscura e tormentata.
La fotografia di Franco Di Giacomo, le musiche di Ennio Morricone, la combinazione delle diverse location (Torino, Roma, Tivoli, Spoleto, Milano) a creare un’unica città dall’aura straniante ed alienante, riescono a far percepire, nell’ambito di un contesto realistico, l’incombente presenza della morte, mentre i personaggi sembrano sospesi in un mondo a parte, quello creato dalle loro ambasce e dal modo di reagire ad esse. Nella cornice della descritta atmosfera, insieme incerta ed inquietante, vi è anche spazio per delle sequenze di “alleggerimento”, viranti ad un sottile umorismo, come quella che vede Roberto chiedere aiuto all’amico Diomede (Bud Spencer), detto Dio, moderno eremita che vive in una baracca nei pressi di un fiume, lontano “dal logorio della vita moderna”, il quale affiderà al Professore (Oreste Lionello) il compito d’investigare sui vari accadimenti.
L’ironia poi a volte diventa satireggiante (lo scrittore Andrea, Stefano Satta Flores, e le improbabili trame dei libri che andrà a scrivere, quali Lo stupro di Frankenstein), sinistra (la morte dell’investigatore privato Arrosio, Jean-Pierre Marielle, l’unica volta in cui era riuscito a risolvere un caso), oppure grottesca (la Mostra Internazionale d’Arte Funeraria, V Edizione), anche se a prevalere sono sempre e comunque toni visionari ed onirici, mutuati da raffinate soluzioni registiche. Ecco allora la soggettiva dell’assassino, per poi passare, ad esempio, alla maestria nel rendere improvvisamente lugubre ed inquietante un luogo dapprima idilliaco, tra bambini che giocano e innamorati che si baciano, ovvero il parco teatro dell’omicidio della domestica di casa Tobias, al pari dei sotterranei della metropolitana, improvvisamente svuotati dalla folla, poco prima del citato assassinio di Arrosio.
Sempre suggestivi, sostenuti da un valido montaggio (Françoise Bonnot), i bruschi passaggi da campi lunghi a primissimi piani che si restringono sugli occhi degli interpreti oppure sugli oggetti (indimenticabile al riguardo quello che rende protagonista la lama di un coltello nell’esecuzione di un omicidio), così come affascina la visualizzazione di una tecnica dal sapore fantascientifico, che permetterebbe d’individuare, analizzando la retina dell’occhio della vittima, quanto vi è rimasto impresso poco prima di morire, quindi, probabilmente, il volto dell’aggressore (se la memoria non mi inganna se ne era già fatto cenno in un albo di Diabolik).
Da antologia del brivido la sequenza finale girata al rallentatore, 12.000 fotogrammi al secondo, realizzata, come ha ricordato lo stesso Argento in un’intervista, utilizzando la Pentazet, “una macchina che apparteneva all’Università di Lipsia, adoperata per lo studio della fusione dei metalli, l’unica al mondo a raggiungere una velocità di ripresa di 18.000 e – in teoria – 30.000 fotogrammi al secondo”. In conclusione, una delle migliori pellicole firmate da Dario Argento, assolutamente da non perdere nella riedizione cinematografica di cui scritto ad inizio articolo, per assaporare ed apprezzare il gusto pieno di una fervida autorialità innovativa, congiunta ad un afflato genuinamente pop.






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