
Lontana dalle scene dall’oramai lontano 1974, quando decise di dedicarsi totalmente alla causa animalista, Brigitte Bardot ci ha lasciato oggi, domenica 28 dicembre, riportando alla memoria quanto preservato dall’immaginario collettivo, ovvero l’icona di una donna, ancor prima che di un’attrice, adusa ad insinuare nell’ambito del costume sociale un’inedita idea di femminilità, all’insegna di un naturale senso di ribellione alle convenzioni proprie degli anni ’50, come anche del decennio successivo. Nata a Parigi nel 1934, Brigitte, dopo aver studiato danza e recitazione, esordì a soli quindici anni nelle vesti di modella, sulla copertina della nota rivista femminile Elle. Qui, come riporta l’Enciclopedia del Cinema Treccani, il suo nome apparve per la prima volta con le iniziali puntate, nella forma che sarebbe poi diventata il suo soprannome (B.B., o Bébé, secondo la pronuncia francese).
A ciò fece seguito una serie di piccole parti in alcuni film (Le trou Normand, Jean Boyer, 1952; Futures vedettes, Ragazze folli; En effeuillant la marguerite, Miss spogliarello, entrambi diretti da Marc Allégret). Venne notata da un collaboratore del citato Allégret, l’aiuto regista Roger Vadim, che la introdusse definitivamente nel mondo del cinema, facendole studiare recitazione presso René Simon. Fu l’inizio una relazione sentimentale, che si sarebbe presto trasformata in un sodalizio artistico di successo, a partire dal film che ne consacrò la fama a livello internazionale, Et Dieu… créa la femme (1956, E Dio creò la donna/Piace a troppi), nel ruolo di Juliette Hardy.
Grazie a questo titolo nacque quindi il mito B.B., fisico estremamente sensuale, lunghi capelli biondi, le labbra volte a disegnare un broncio particolarmente intrigante: nella visualizzazione di un caratteristico contrasto fra candore ed erotismo, ironia ed umana vaghezza, l’attrice rappresentò per molti una sorta di risposta europea a Marilyn Monroe, insieme diva e “ragazza della porta accanto”. Un atteggiamento spregiudicato ed autoironico, sulle scene come fuori da quest’ultime, interpretabile come simbolo di una oramai prossima e benvenuta emancipazione femminile, anche se nell’ambito propriamente cinematografico venne sfruttato a pieno, ovvero andando al di là di una semplice riproposizione in pellicole dall’impronta narrativa per lo più simile, solo da pochi autori, che ne colsero la portata deflagrante nei confronti del comune vivere sociale del tempo.
Ecco allora titoli quali En cas de malheur (La ragazza del peccato, Claude Autant-Lara, 1958, dal romanzo di Georges Simenon) o La vérité (La verità, Henri-George Clouzot, 1960), ma soprattutto quelli realizzati dai cineasti della Nouvelle Vague (Louis Malle, Vie privée, Vita privata, 1961), che ne intuirono e valorizzarono le doti drammatiche (fra gli altri Jean-Luc Godard, con Le Mépris, Il disprezzo, 1963, dal romanzo di Alberto Moravia). Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, la Bardot andò quindi a consolidare tanto l’immagine divistica a tutto campo (si parlava oramai, fonte Treccani, di bardolâtrie), quanto quella relativa ad un icona ispiratrice per molte ragazze del tempo riguardo il modo di vestirsi, il trucco o le acconciature, per non parlare dei vari alti e bassi della vita sentimentale che andavano a riempire le pagine dei rotocalchi, con titoli “sensazionalistici”, in odore di facile scandalo.
Un pot-pourri congruo ad alimentare l’immaginario che nel corso degli anni andò a mitizzarne in certo qual senso la figura, coinvolgendo anche letterati o filosofi. Intanto il grande schermo continuava a proporle i consueti ruoli, a parte felici eccezioni (ad esempio, Vie privée, 1962, Louis Malle), o Masculin-féminine (Il maschio e la femmina, Godard, 1966), ricordando anche titoli curiosi come i western Viva Maria (ancora Malle, 1965) e Le pistolere (Christian-Jaque, 1971) o Dear Brigitte (Erasmo il lentigginoso, Henry Koster, 1966), dove in una breve apparizione interpreta con piglio autoironico se stessa, per poi arrivare a quella che fu la sua ultima interpretazione cinematografica, diretta da Vadim in Don Juan ou Si Don Juan était une femme… .
Un anno dopo, icona ormai “istituzionalizzata” di moda e costume, per una immagine sempre ben salda nell’immaginario collettivo, la diva, riprendendo quanto scritto ad inizio articolo, diede l’addio alle scene per dedicarsi alle cause animaliste, creando anche un’associazione al riguardo, garantendosi sempre e comunque l’attenzione dei media, alimentando la chimera divistica in altra, inedita, forma. Dopotutto, come sosteneva Albert Camus, I miti sono fatti perché l’immaginazione li animi.
Immagine di copertina: Cdrik b06, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons





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