
Reduce dalla 66ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove è stato oggetto di critiche non sempre benevole e a volte anche pretestuose, Il grande sogno di Michele Placido si offre ora al grande pubblico, che finora sembra avergli riservato un certo interesse. Al Placido regista si può rimproverare di non aver seguito una linea univoca nelle sue realizzazioni, ma non certo la sua buona fede o bontà di intenti, come si può notare in questo suo ultimo lavoro.
Coadiuvato nella sceneggiatura da Doriana Leondeff e Angelo Pasquini, racconta, con toni autobiografici e in uno stile da romanzo di formazione, il ’68 visto con gli occhi di un giovane meridionale, Nicola (Riccardo Scamarcio, intenso e ben calato nel personaggio), poliziotto a Roma con il sogno di fare l’attore, inserito come infiltrato al’interno del movimento studentesco, che ha ormai messo in atto la propria protesta, individuale, nei confronti delle proprie famiglie, e collettiva, riguardo le tante storture presenti nel mondo, dalla guerra in Vietnam, allo sfruttamento in Italia dei lavoratori nelle fabbriche al Nord o dei braccianti al Sud.
In questo suo percorso di vita farà la conoscenza di Laura (Jasmine Trinca, gradevole conferma), borghese di famiglia cattolica, e di Libero (Luca Argentero, attore in ascesa), proletario marxista; per motivi diversi ambedue gli uomini si riveleranno affascinanti agli occhi di Laura, che, pur combattuta, sarà comunque costretta a fare una scelta, così come anche Nicola, che, nauseato dagli interventi repressivi della Polizia nei confronti dei contadini di Avola, lascerà la divisa per iniziare la dura gavetta d’ attore.
In fondo, sarà lui alla fine a realizzare il “grande sogno”, per quanto personale, frequentando l’ Accademia d’arte drammatica, con i “rivoluzionari” che ritorneranno, e si realizzeranno, nella loro esistenza borghese o imboccheranno la strada del terrorismo, mentre mali ed ingiustizie saranno sempre presenti.
Nella parte in cui descrive l’itinerario formativo di Nicola, gli scontri con i suoi superiori, l’incontro con i giovani del movimento, la conoscenza delle loro idee, dalle quali, per quanto spesso confuse e mai unitarie, rimane coinvolto, Placido si dimostra abile nel tratteggiare finemente le psicologie dei protagonisti, così come nel descrivere certe angosce proprie degli ambienti borghesi.
Nel ricostruire gli eventi propri di quegli anni, ai quali si intrecciano le vicende personali dei personaggi, punta invece ad uno stile codificato, senza particolari sfumature ed emozioni, se non quelle suscitate da un rapido montaggio, dalle splendide musiche (Nicola Piovani) e da una fotografia “sporca”(Arnaldo Catinari), che vira al bianco e nero nell’accostamento tra scene del film e documentari d’epoca.
Probabilmente, ciò che interessa al regista è, essenzialmente, visualizzare l’idealizzazione giovanile di quel movimento spontaneo, insofferente a regole e convenzioni sociali, non sottolineando più di tanto la sua carica eversiva, le varie fratture che si generarono al suo interno, con le estremizzazioni terroristiche come risposta all’impossibilità di cambiare realmente il mondo, senza comprendere la tragica evidenza che più che essere noi a cambiare il mondo è, spesso, il mondo a cambiare noi, come si fa sarcasticamente sottintendere nel finale.





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