Tra la primavera del ’59 e l’autunno ’63 il cinema francese assume nuove caratteristiche, sparisce l’accademismo ereditato dagli anni 30 per nuovi modelli di riferimento, tra i quali Rossellini: la macchina da presa torna nelle strade, si riprende contatto con la realtà, abbandonando l’artificio degli studi cinematografici, cercando attori nuovi che potessero dare una patina di autenticità ai personaggi interpretati e affrancandosi dai vincoli della sceneggiatura. Si tende poi ad una fotografia più vicina al documentario e ad una illuminazione il più possibile simile alla luce naturale. Nasceva la Nouvelle vague e la “ politica degli autori”, i diritti dell’autore-regista, padrone del linguaggio cinematografico e quindi creatore del film.
Francois Truffaut (1932-1984), tra i grandi protagonisti di questa nuova corrente, se ne distacca per dare importanza ai sentimenti ed alla partecipazione emotiva dello spettatore; la sua opera d’esordio, Les quatre-cents coups (fare il diavolo a quattro, per traslato), insolita e di stile innovativo, vinse il Premio per la miglior regia al Festival di Cannes del ’59:Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud), un dodicenne introverso, vive a Parigi, in un piccolo appartamento, senza una stanza propria, e non ha un buon rapporto con i genitori, una madre assente e coinvolta in avventure extra coniugali ed un padre, acquisito, che pensa solo al lavoro e ai rally della domenica.
Bigia spesso la scuola con un suo amico per andare al cinema o al luna-park, giustificando l’assenza con bugie assurde, scappa di casa due volte, commette un furto, ma al momento di restituire il maltolto che non è riuscito a rivendere, viene sorpreso: al commissariato il padre, che non vede l’ora di liberarsene, decide per l’invio in un centro correzionale, dal quale Antoine riuscirà a fuggire, in cerca di quel mare che non ha mai visto.
Truffaut, con sguardo complice e toni autobiografici (Antoine-Léaud è il suo alter-ego e lo sarà in altri film), con la macchina da presa che si fa agile e leggera, alterna piani ravvicinati e statici nelle riprese degli interni, a simboleggiare l’ostilità, la chiusura di certi ambienti nei confronti del protagonista, a campi lunghi e ampi movimenti della macchina da presa in quelle degli esterni.
Antoine lotta contro l’insensibilità e l’ostilità delle istituzioni, a partire dalla famiglia, passando per la scuola e finendo con l’ordine costituito e reprimente del carcere e del riformatorio, esprimendo il suo disagio con un comportamento in apparenza anaffettivo, sino alla lunga fuga finale verso il mare, simbolo di libertà e felicità e dinnanzi al quale si ferma sconcertato.
I suo passo si fa incerto, si fa lambire i piedi dalla spuma, ma indietreggia, si volta verso la macchina da presa, che ne cristallizza in un fermo immagine il suo sguardo insieme accusatorio e cercante affetto, proprio di chi è entrato a far parte della vita senza aver vissuto in pieno, rivolto ad una società che l’ha costretto a rinnegare la sua adolescenza per divenire adulto troppo presto.





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