Un borghese piccolo piccolo, basato sull’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, regia di Mario Monicelli, cosceneggiatore insieme a Vincenzo Amidei, da molti considerato il film simbolo della definitiva conclusione del periodo d’oro della cosiddetta “commedia all’italiana”, appare in realtà, a distanza di anni, come un estremo tentativo di evoluzione, una volta presa coscienza della profonda mutazione in atto nella società.

E’ come se gli autori, Monicelli in tal caso, si fossero resi conto che agli italiani non bastasse più un semplice buffetto sulla guancia, come veniva visto il mettere alla berlina i nostri vizi, anche ferocemente, magari fiduciosi di un radicale cambiamento nell’immediato futuro.

Alberto Sordi, maschera d’ estrema adattabilità, diviene ora personificazione di quella piccola borghesia, spesso di rango impiegatizio, che, più che lottare per un’evoluzione o un riscatto sociale nel rispetto dei valori fondanti, opta per la prosecuzione dello status quo con tutti i mezzi possibili, dalla “classica” raccomandazione in poi, dimenticando qualsivoglia eticità e all’insegna di un profondo egoismo.

Roma, Giovanni Vivaldi (Sordi), modesto impiegato ministeriale prossimo alla pensione, conduce una tranquilla e monotona esistenza tra ufficio e famiglia, composta dalla moglie Amalia (Shelley Winters), casalinga, e dal figlio Mario (Vincenzo Crocitti, recentemente scomparso), fresco di diploma in ragioneria; su quest’ultimo Giovanni ripone le sue speranze:una volta superato il concorso, potrebbe subentrargli in ufficio ed iniziare da lì la sua carriera.

Per far sì che questo avvenga non si esime dall’adoperare ogni mezzo, anche iscriversi ad una loggia massonica. Ma proprio il giorno dell’esame, mentre accompagna il figlio, questi muore sotto i suoi occhi, colpito da un proiettile vagante esploso nel corso di una sparatoria conseguente ad una rapina; con Amalia ora paralizzata e senza voce, Giovanni cova rancore e vendetta: individuato in un confronto l’assassino, preferirà farsi giustizia da sé, sino alle estreme conseguenze.

Monicelli non si fa giudice né facile ideologo, prende semplicemente atto che la nostra società, ormai avulsa da una vera e propria dimensione sociale, orfana di tutti i valori positivi, non sentendosi più rappresentata dalle Istituzioni nel loro complesso, può essere semplicemente descritta, mantenendo una certa distanza.

In maniera essenzialmente cruda, con uno stile asciutto dai toni ora farseschi ora grotteschi, veniamo invitati a compiere un percorso ben congegnato, dove ciò che è normale e ciò che non lo è non solo sono sullo stesso piano, ma spesso si intersecano tra loro, in una spietata girandola di situazioni ora liete, ora profondamente tragiche.

La stessa Roma, complice una fotografia (Mario Vulpiani) plumbea e monocromatica, appare quasi lontana dalle varie vicende narrate. Sottolineando la bravura degli interpreti (Sordi all’apice di una multiforme espressività, Crocitti perfettamente in parte, la Winters madre silente e dolente), è evidente qualche stridore sul piano narrativo, come la sequenza al cimitero o il rapporto vittima-carnefice, nelle intenzioni un transfert tra assassino e il ragazzo assassinato, bloccato su una certa esteriorità, senza sfumature psicologiche.

Tutto però è svolto con sapienza e lungimiranza: nell’Italia odierna, quanto siamo rimasti “piccoli piccoli”, bloccati dalle nostre grettezze quotidiane? Ovvia la domanda, ovvia la risposta.

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