Bellissima è il primo passo di Luchino Visconti verso l’abbandono della strada del Neorealismo, intrapresa con Ossessione (’43) e La terra trema (’48), pur nella diversità di struttura estetica e di motivazioni. La sua scelta stilistica vira al melodramma, con teatro e cinema che coesistono e si integrano a vicenda; punto di svolta sarà Senso (’54), raffinato impasto tra visione ideologica e libera espressione del proprio gusto scenografico. Da un soggetto di Cesare Zavattini, la sceneggiatura (Suso Cecchi D’Amico, Francesco Rosi e Visconti stesso), si incentra sulla figura di Maddalena (Anna Magnani), popolana romana, e su tutti i suoi sacrifici per far sì che la figlia Maria (Tina Apicella) possa essere ammessa ad un provino cinematografico, superarlo ed entrare a far parte del cast di un film di Blasetti.
Come lei, tante madri accorse a Cinecittà, visto che la Stella Film ha indetto un vero e proprio concorso per scegliere la bimba più adatta al ruolo. Maddalena, sposata col manovale Spartaco (Gastone Renzelli), che si oppone alle sue scelte, investe tutti i suoi risparmi per iscrivere Maria ad una scuola di ballo e farle studiare recitazione con un ex attrice male in arnese, passa le ultime 50mila lire al truffaldino Annovazzi (Walter Chiari), facente parte della troupe del regista, perché “metta una buona parola”, respingendo i suoi tentativi di seduzione.
Nonostante il mancato aiuto, il provino è superato, ma quando la madre di nascosto assiste alla proiezione, con la figlia spaurita che piange e i “cinematografari” in preda a risa sguaiate per la sua goffaggine, ecco cadere subitamente il velo d’illusione che si era creata, tanto da rifiutare anche il lauto ingaggio propostogli dal produttore. Ormai riconciliatasi con il marito, la vita prenderà la strada della realtà.
Bellissima è un film su un personaggio, uno splendido ritratto di donna reso palpitante e vivo dall’interpretazione della Magnani, evidenziandone le ormai spente aspirazioni che vorrebbe vedere realizzate nella figlia, per poi dover dolorosamente convenire che il miglioramento della propria condizione deve seguire altre vie, anche quelle del suo ruolo di madre, con l’apparente sconfitta che si trasforma in una vittoria morale.
L’Italia appena uscita dalla fase della ricostruzione, guarda già oltre il soddisfacimento dei bisogni più immediati, immaginando un diverso status sociale, anche attraverso il cinema, macchina dispensatrice di sogni: lo sguardo di Visconti si fa ironico e crudele (i ritratti delle ex attrici) verso un mondo che conosce bene, privo di ogni ideale, con lo stesso neorealismo visto nella sua utopia e contraddizione di riuscire a visualizzare la realtà, ma non di modificarla.
Qui la citata corrente resta sullo sfondo, nei personaggi secondari, preferendo puntare sul ritmo della storia, strutturata come una partitura musicale: lo si nota dall’ ouverture iniziale, tratta dall’Elisir d’ Amore di Donizetti, come altri temi della colonna sonora, curata da F. Mannino.
Al riguardo è ancora affascinante l’idea espressa a suo tempo dal critico G. Aristarco, per cui i personaggi, facendo riferimento alla citata opera, sarebbero immersi in un sogno donizettiano, con l’estrinsecazione musicale del monologo interiore di Maddalena e Blasetti-Dulcamara il venditore d’illusioni.
Un discorso attualizzabile, sostituendo il cinema con la tv e certi suoi pretestuosi talent show, con le aspettative genitoriali riversate su bimbetti scimmiottanti cantanti famosi, dismessi dello status fanciullesco della spontaneità e spensieratezza.





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