Bedford Falls, da qualche parte in America, la notte di Natale del 1945: scende giù fitta la neve, tutti sono in casa prossimi a festeggiare, ma all’interno delle varie abitazioni riecheggiano non tradizionali canti di gioia bensì preghiere in favore di tale George Bailey (James Stewart) espresse da amici e familiari, perché possa ritrovare quel senso di speranza ed ottimismo che gli erano propri prima di imbattersi in una grave difficoltà economica.
Lassù in cielo il buon Dio è in ascolto e dopo un breve consulto decide di inviare un angelo, Clarence Oddbody (Henry Travers), la cui intelligenza “non è superiore a quella di un coniglio”, ma con la fede pura come quella di un bambino.

L’inviato celeste dovrà aiutare George a riprendere in mano la propria vita, in premio avrà le tanto agognate ali, così non sarà più un angelo di seconda classe; dopotutto le attende ormai da cento anni e nella cerchia dei colleghi si inizia a mormorare.
Facciamo dunque la conoscenza del tanto chiacchierato George: generoso, onesto e sognatore, sin da bambino ha sempre anteposto gli altri a sé stesso, per esempio salvò il fratello da un probabile annegamento in un lago gelato perdendo l’udito da un orecchio, una volta adulto, in procinto di partire per un viaggio intorno al mondo per poi laurearsi, così da dedicarsi alla costruzione di grandi grattacieli, dovette a malincuore cambiare programma, causa la morte del padre, a cui subentrò nella conduzione della Costruzioni e mutui Bailey. Bloccava così le bieche mire espansionistiche dell’avido capitalista Henry F. Potter (Lionel Barrymore), permettendo tramite prestiti favorevoli a persone umili di vivere in case dignitose.

Il matrimonio del fratello e un incarico lavorativo di questi presso l’azienda del suocero, facevano sì che George rimanesse ancora a Bedford Falls per occuparsi dell’azienda insieme allo zio Billy (Thomas Mitchell) e mettesse su famiglia, sposando una sua amica d’infanzia, la dolce Mary (Donna Reed), dalla quale avrà quattro bambini; scorre veloce la sabbia nella clessidra del tempo e arriviamo così alla notte di Natale in cui Clarence ha ricevuto il delicato incarico: zio Billy ha smarrito sbadatamente la somma dell’incasso mensile, necessaria per adempiere ad una serie di scadenze, che viene ritrovata dal perfido Potter, il quale si guarda bene da restituirla, ansioso di vedere George strisciare ai suoi piedi.
Questi, disperato, decide di farla finita gettandosi nel fiume: l’intervento di Clarence gli fa cambiare idea, offrendo poi realizzazione ad un desiderio espresso fra dolore e rassegnazione: non essere mai nato…
Fresco dall’aver spento da poco 70 candeline (la prima ebbe luogo al Globe Theatre di New York il 20 dicembre 1946), It’s a Wonderful Life trae origine da un racconto di Philip Van Doren Stern del 1939, The Greatest Gift, inizialmente donato dall’autore in forma di cartolina natalizia ad amici e parenti.
Adattato da Frank Capra, regista del film, insieme a Frances Goodrich e Albert Hackett (con la collaborazione di Jo Swerling e Michael Wilson), prodotto dalla neonata Liberty Films, creata da Capra e Samuel J. Briskin subito dopo il secondo conflitto, il film ricevette un’accoglienza piuttosto tiepida, tanto del pubblico quanto della critica, per poi conoscere una seconda giovinezza sul finire degli anni Settanta.
Infatti, causa un mancato rinnovo del copyright, la pellicola divenne di pubblico dominio e quindi trasmessa durante le festività natalizie dalle varie emittenti televisive statunitensi.
Evidente nella messinscena la consueta maestria registica propria di Capra, capace al contempo di esprimere linearità narrativa ed una certa inventiva, oltre ad offrire grande rilievo alle interpretazioni attoriali, così da far risaltare ogni aspetto psicologico e realisticamente umano dei personaggi, ma, soprattutto, a ben guardare, un assunto finale ammantato da luci sinistre, rese appena soffuse dai toni della consueta favola redentrice cara al regista, intrisa di innocenza ed ottimismo, con una velata, dolce, ingenuità nell’esprimere la morale di fondo, “la vita di un uomo è legata a tante altre vite e quando quest’uomo non esiste lascia un vuoto”.
Agli occhi degli spettatori del tempo, in una realtà sociale ancora confusa, appena riemersa dagli orrori del secondo conflitto, alle prese con incertezze e speranze, appariva una netta contrapposizione fra due modi d’intendere ed affrontare la vita. Vi è chi, come George Bailey (cui Stewart offre un’interpretazione naturale ed intensa, anche nei passaggi dalla gioia alla nera rassegnazione e viceversa; egualmente può dirsi per Donna Reed, il cui sguardo e sorriso concedono una levità disarmante), sia per generosità caratteriale, sia per una forte aderenza ai valori fondanti, principi morali ancor prima che religiosi, antepone le proprie aspirazioni ed i propri interessi al bene di quanti gli sono vicino e della collettività. E poi vi sono individui come Potter (interpretato con tetra “normalità” da Barrymore nell’ostentare plutocratica sicumera), espressione di un capitalismo che persegue la ricchezza per la ricchezza, pensando nient’altro che al proprio personale tornaconto, non chiedendo di meglio dell’avere persone alla propria mercé, da dominare e sfruttare.

Questo continuo fronteggiarsi tra le due contrapposte “fazioni”, evidente nel corso dell’iter narrativo, tende a rispecchiare un contesto reale dove tale dicotomia è nell’ordine delle cose e non vi è mai una netta vittoria dell’una sull’altra, ma, più semplicemente, l’opportunità offerta dall’intervento della Divina Provvidenza si sostanzia nel far comprendere ai “puri di cuore” come la propria semplice esistenza possa fare la differenza, perché l’estraniarsi dal contesto sociale non può portare altro che alla propria inutilità in mancanza di una ben precisa identità. Resistendo al canto delle sirene e mantenendosi saldi all’albero maestro della rettitudine e del bene comune, in virtù del legame, come già scritto, che collega più esistenze fra di loro, sarà possibile ritrovare la speranza perduta, una volta valutata la rilevanza della propria assenza terrena e riconsideratane la presenza in virtù sia del percorso compiuto, sia di ciò che si è messo in atto durante il cammino.
Visivamente la “non nascita” di George viene resa con un vero e proprio “film nel film”, i cui toni, complici anche i giochi di luci ed ombre della fotografia (Joseph F. Biroc, Joseph Walker, Victor Milner), si fanno quasi horror (indimenticabile il volto terrorizzato di George nel constatare come il suo desiderio sia stato esaudito) visualizzando, ora nelle forme di un apologo tetro e crudele, ora in quelle di un incubo moraleggiante, una cittadina (adesso Pottersville) tutta case da gioco e locali “allegri” all’interno di una realtà violenta e disgregata.
Quindi, riprendendo quanto scritto, l’intervento soprannaturale non sconvolgerà il consueto andamento delle cose: Potter non sarà scosso da alcun pentimento riguardo la sottrazione indebita né subirà una punizione particolare come contropartita, se non vedere ancora una volta lo “stupido Bailey” superarlo in ricchezza, quella che non può quantificarsi in una somma di denaro.
Il premio elargito a George grazie all’intuizione del candido Clarence (nel frattempo, forse non avete sentito, vi è stato un lieve scampanio, è risaputo che una campana suona quando ad un angelo spuntano le ali) è di aver finalmente appreso quanto probabilmente ha sempre intuito ma non ha avuto il coraggio o l’opportunità di ammettere: la beltà dell’esistenza, il semplice essere venuti a far parte di questo buffo mondo, all’interno di una comunità nei confronti della quale sussiste una reciproca confluenza di comprensione e partecipazione umana è “il più grande dono” mai elargito. Occorre farne buon uso, nutrendo fiducia tanto verso la terra quanto verso il cielo, anche se la corrispondenza fra le due entità non sempre è avvolta da un evidente rapporto di reciprocità, rammentando, infine, come “nessun uomo debba considerarsi un fallito se ha degli amici”.
Questo dunque è quanto comprese, nel lontano Natale del 1945, un non più sconfortato George Bailey, che altrettanto possa dirsi amici lettori, citando Dickens in chiusura, di noi, di tutti noi.
Buon Natale e grazie!
(Rielaborazione ed approfondimento di un mio precedente articolo, pubblicato in data 20 dicembre 2009)
Adoro quel film! Bello il tuo augurio, che ricambio di cuore!
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E’ uno dei miei “riti” in questi giorni di festa…rivedere “La vita è meravigliosa” o “Natale in casa Cupiello”… Grazie, un caro saluto.
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