Una città come tante, avvolta dal buio della notte, la fioca luce dell’illuminazione pubblica, l’estrema periferia, brumosa e sinistra, acquattata ai margini, un deserto delle anime al cui interno si agitano quali spiriti vaganti persone senza identità, corpi vacui in perenne cammino, orfani di un reale contatto umano, dimentichi d’empatia e a condivisione. Una ragazza (Silvia Cucco), vent’anni o giù di lì, si apparta con un operaio all’interno di uno sgabuzzino nei pressi della stazione ferroviaria, qui viene consumato un rapporto orale, subito dopo la giovane va via, consegna il guadagno al protettore (Matteo Valier), che la incita a lavorare di più.
Una sera la donna sale sull’auto di un coetaneo (Samuele Maritan), lunghi capelli e corporatura massiccia, lavora al mercato scaricando cassette, vive solo, a parte un cagnolino a fargli compagnia, ed anche lui appare come del tutto avulso dall’ambiente circostante.
Al di là del mero contatto fisico, garantito dalla mercificazione corporale, fra i due sembra nascere una certa intesa, iniziano a frequentarsi, istintivamente, senza porsi tante domande, s’intravede un barlume di un qualcosa che forse potrebbe assomigliare ad una felicità probabilmente mai conosciuta e neanche ricercata, da afferrare subito, appigliandosi saldamente ad essa, perché non vi è nulla là fuori che la possa assicurare e tantomeno ispirare.
La ragazza esternerà dunque al manesco lenone la volontà di mollarlo: la reazione dell’uomo sarà all’insegna della violenza, offrendo però il destro alla manifestazione di un’ira finora sottesa quale reazione ad una situazione di sofferente disagio…

Il termine film indipendente all’interno dell’attuale produzione cinematografica nostrana spesso sta a significare un vero e proprio atto di coraggio volto a smarcarsi dalle consuete proposte serializzate, benvenute eccezioni a parte, ovviamente. Ritengo che quanto testé scritto possa certo riguardare Ira, dramma dalle sfumature noir prodotto da ACSD ArtInMovimento/AC SystemOut e diretto da Mauro Russo Rouge (Censurado- Ode to love; Aberrante; Katena), girato all’insegna di un estremo realismo, al limite del documentario, e che si sviluppa addirittura, per stessa ammissione dell’autore, in mancanza di una vera e propria sceneggiatura, prediligendo quindi una narrazione concretamente in divenire, dove un serrato montaggio, opera dello stesso regista, al pari della fotografia livida e pesta volta ad assecondare precipuamente l’illuminazione naturale, giocano un ruolo fondamentale.
Russo pedina letteralmente i due protagonisti, la cui resa recitativa appare piuttosto diretta, spontanea, chiude l’obiettivo intorno i loro corpi, a simboleggiare l’isolamento dall’ambiente circostante, anche se quest’ultimo, reso attraverso la città di Torino visualizzata quale simbolico microcosmo, sospeso tra non luogo e lugubre fondale, propende a divenire anch’esso interprete, delineando col suo squallore il vuoto, materiale e morale, proprio di una società ormai in cammino verso il sentiero di una strafottente indifferenza, esternata soprattutto nei riguardi di quei soggetti speranzosi che i loro sogni nel cassetto, pochi ed eventuali, non svaniscano alle prime luci dell’alba, venendo a mancare la concreta possibilità di realizzarli, assecondando l’acquiescenza volta ad una solipsistica determinazione di sé.

Il regista non intende esternare, riporto la mia personale sensazione, alcuna forma di pietismo nei riguardi dei due soggetti, magari suffragando una morale dal facile impatto sociologico, bensì, attraverso il descritto stile disadorno ed essenziale, fa sì che noi spettatori si possa prendere coscienza di quanto, colpevolmente o meno, tendiamo ad ignorare, nascondendoci dietro il paravento di opportune generalizzazioni. La macchina da presa si fa tutt’uno con gli interpreti, ripresi per lo più di spalle nel loro incedere quotidiano, rivolgendo comunque loro anche intensi primi piani, volti ad indagarne espressioni e stati d’animo, delineando quindi un’espressività “ruvida”; considerando gli scarni dialoghi, le immagini rivestono un ruolo importante nell’offrire, anche in virtù della suddette caratteristiche della fotografia, un determinante impatto complessivo nel ritrarre lo squallore perpetrato nel tempo e l’insanabile incedere del degrado quotidiano, ormai consolidata routine. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina, è teso ad assecondare l’azione del momento, il “qui ed ora” degli accadimenti che si materializzano dinnanzi ai nostri occhi, tra cinematografia e realtà fenomenica, dove la casualità delle riprese, riprendendo quanto già scritto nel corso dell’articolo, offre opportuno spazio all’interpretazione degli spettatori.
Un’opera forte, per nulla accomodante, che ci costringe a rapportarci con una moralità lontana da qualsivoglia ipocrisia o perbenismi di circostanza; il finale, senza svelare alcunché, credo possa rappresentare tanto la conclamazione dell’impossibilità di mutare il contesto in cui ci si trova a vivere, adeguandosi alle sue modalità esistenziali, quanto una possibile, tenue forse, speranza, ovvero poter riconquistare, nel suggello di un bacio sincero, l’umanità perduta.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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