Gioiavallata, Puglia, 1937, anno XV dell’era fascista. Salvatore Acquamano (Gino Cervi), podestà del paese, ha riunito nella propria abitazione i suoi principali accoliti, a partire dal consigliere politico Carmine Passante (Gastone Moschin). Il motivo dell’urgente adunata risiede in una lettera che il primo cittadino ha ricevuto da un cugino, impiegato alla prefettura di Taranto, con la quale si rende noto l’invio da parte della Direzione Generale del partito di un funzionario da Roma con l’incarico di un’ispezione politico-amministrativa del Comune. Fra i notabili inizia a serpeggiare la paura che siano stati scoperti determinati altarini, vedi tangenti varie, appropriazioni indebite dei fondi stanziati per le opere di bonifica o un aeroporto fasullo la cui pista è nient’altro che una palude… Quindi, una volta appreso che all’albergo cittadino è giunto da poco, proveniente dalla Capitale, tale Omero Battifiori (Nino Manfredi), assicuratore, non esiteranno neanche un secondo ad individuarlo come il paventato funzionario, in incognito, anche perché l’aspetto appare sì mite e bonario, ma dalle parole e dagli atteggiamenti si evince una ferma fedeltà ai precetti e alle direttive mussoliniane. Il paese viene quindi solertemente tirato a lucido, frasi del Duce su ogni muro occupabile, vespasiani, messa in sicurezza di noti agitatori politici, chiusura dei vicoli che portano alle più che modeste dimore dei contadini, previsione di varie cerimonie e visite guidate a dimostrare l’efficienza e la devozione alla causa fascista, coerentemente all’immagine diffusa dalle mirabolanti cronache dei cinegiornali.

Michèle Mercier e Nino Manfredi (Cafe Pellicola)

Il tranquillo Omero, che nel frattempo si è innamorato della figlia del podestà, la maestra Elvira (Michèle Mercier), coinvolto nei vari riti celebrativi, non solo verrà a capo dell’equivoco, ma, grazie anche al dottor de Vincenzi (Salvo Randone), oppositore del regime, si renderà ben presto conto del raggiro messo in atto ai danni della povera gente che, ancora una volta, ha voluto credere al sospirato uomo  della provvidenza… Sceneggiato da Ettore Scola, Ruggero Maccari e Luigi Zampa, regista del film, ispirandosi all’opera teatrale L’ispettore generale (Revizor) di Nikolaj Gogol’, 1836, Gli anni ruggenti si collega idealmente, formando così una trilogia sul Fascismo, ai precedenti Anni difficili (1948) ed Anni facili (1953), sempre diretti da Zampa e tratti rispettivamente da una novella (Il vecchio con gli stivali) e da un soggetto di Vitaliano Brancati. Rispetto ai titoli citati forse si indulge a tratti in un bozzettismo di facile presa, senza però mai dimenticare l’impegno civile ed una satira graffiante, dai toni acri, nell’abilità di prendere spunto dalla Storia per mettere alla berlina convenienze, prepotenze, furberie proprie di un certo malcostume italico, il quale appare propenso a superare le barriere temporali e a presentarsi puntualmente, cambiando veste, fino ai giorni nostri.

Gastone Moschin e Gino Cervi (Cineteca Bologna)

Al centro della narrazione, come in altre pellicole di Zampa, vi è l’individuo comune, incline a divenire baricentro delle vicende narrate, qui rappresentato dall’affabile assicuratore interpretato da Manfredi, il quale contorna l’istintiva carica di simpatia che gli era propria con una recitazione  pacata, basata su un umorismo sommesso e controllato, cui non è estranea una certa amarezza di fondo. Ecco quindi l’uomo medio che ha aderito, in buona compagnia, un po’ per convinzione, un po’, se non soprattutto, per convenienza e quieto vivere, a determinati imposti ideali,  rendersi testimone di come tante belle parole, proclami dall’alto di un balcone, rituali squadristici, missioni espansionistiche (a celare le consuete razzie colonizzatrici) e “guerre purificatrici” (cui partecipano i consueti agnelli sacrificali, ovvero gente pronta a tutto pur di guadagnare qualche soldo), non siano altro che il consueto paravento, dalla portata tragica nella sua prevaricazione sopraffattrice, di qualsivoglia potere che non tenga minimamente conto delle reali necessità umane.  

Salvo Randone e Manfredi (Cafe Pellicola)

L’immaginario paese pugliese di Gioiavallata (gli esterni del film hanno interessato Ostuni, Alberobello, i Sassi di Matera) si rende così necessario microcosmo all’interno del quale mettere in scena una parodia sferzante ed impietosa sul potere costituito, universalmente considerato, sulle sue derive autoritarie e sulla sua impossibilità a giudicare se stesso, contraddizione con la quale convive e di cui si nutre per continuare ad esistere, affermando la sua supremazia celandosi dietro il rispetto della legge e dell’ordine. La regia di Zampa asseconda quanto delineato dalla sapida sceneggiatura, ponendo particolare risalto ai dialoghi e conseguentemente alle interpretazioni attoriali, riguardo le quali, scritto della mirabile prova di Manfredi a rendersi un vero e proprio “io narrante”, non si può che tessere elogi per l’interpretazione di Cervi, maneggione fiero della sua, a suo dire, sudata posizione, nonostante sia in possesso della sola licenza elementare e quelle altrettanto mirabili di Moschin, tronfio quanto pavido “ducetto” e Randone, il dottore de Vincenzi, antifascista come altri professionisti ed intellettuali del paese che sono soliti riunirsi in un circolo privato, i quali non possono far altro che constatare magagne e soprusi, coltivando la speranza di poter appoggiare qualche sacrosanto moto di ribellione (“Magari ci fosse qualche Don Chisciotte in più e qualche Don Abbondio in meno”, è il suo laconico commento nell’illustrare ad Omero la situazione del paese).

(Lombardia Beni Culturali)

Da non sottovalutare il ruolo di validi caratteristi quali Ruggero Pignotti nei panni del direttore della scuola elementare col vizio delle “donnine allegre” (i cui favori vengono pagati coi fondi dei sussidi scolastici), Totò Ponti (almeno dalle mie ricerche credo sia lui, doppiato da Giacomo Furia) e Giuseppe Ianigro in quelli, rispettivamente, del direttore dell’ospedale (fra l’altro gode della pensione di guerra pur essendo stato riformato) e del consulente a strade e giardini (aduso ad appropriazioni indebite, la cui moglie è amante di Passante), elementi idonei a comporre il composito quadro “vizi privati pubbliche virtù”. Diverse le sequenze indimenticabili, ora spassose (la mandria di mucche in viaggio da una fattoria all’altra, per esempio o il dialogo equivoco fra Battifiori e il consulente a strade e giardini), ora dolenti e tragiche (le grotte dove vivono i contadini, speranzosi che il presunto alto funzionario possa mettere una buona parola sulle loro misere condizioni  parlando con “lui”, anche se non manca chi in punto di morte non lesina a mandarlo  a quel paese), ma a restarti impressa è certo quella finale: l’assicuratore è sul treno, di ritorno a Roma, seduto su uno strapuntino dopo aver evitato di sedersi in uno scompartimento dove un signore inneggiava alle mirabili gesta dell’uomo solo al comando e legge una lettera affidatagli da un contadino perché la portasse al Duce, cui affida la speranza, vedovo e con un figlio caduto in Africa, di avere finalmente una casa normale, da non dividere con le bestie, con una finestra da cui potersi affacciare…

(Spettakolo.it)

Ecco allora che Gli anni ruggenti, premiato con la Vela d’Argento al 15mo Festival di Locarno nel 1962, dopo gli sberleffi al regime e generalmente al potere costituito in ogni foggia, riprendendo quanto su scritto, assume la consistenza di un’opera profondamente e concretamente civile nel descrivere la totale disfatta sociale, morale e politica di un paese sempre alla ricerca di un definitivo punto d’equilibrio fra diverse ideologie, preferendo piuttosto servirsi ora dell’una ora dell’altra a seconda delle varie convenienze in gioco. Il tutto trovando facile attecchimento in una popolazione che, riprendendo le parole di Montanelli in risposta ad una frase di Giuseppe Prezzolini, “non si divide in furbi e in fessi, sono nello stesso tempo tutti furbi e fessi”.

Già pubblicato su Diari di Cineclub N.87-Ottobre 2020

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