In quanto inguaribile romantico, vera iattura in questi tempi volti alla “praticità” dei rapporti, rimango spesso e volentieri ammaliato da quelle narrazioni, filmiche precipuamente ma anche letterarie, incentrate sull’inesorabile scorrere temporale, quasi mai invano, tanto in positivo che in negativo, il quale va ad offrirsi quale congruo scenario per nascita, consolidamento, frattura ed eventuale risanamento di sentimenti contigui come l’amicizia e l’amore, spesso legati tra loro da un vincolo forse sottile ma comunque rilevante. Ecco spiegarsi il perché lo scrivente sia rimasto del tutto assorto, avvolto in una sorta di aurea sospensione dai quotidiani triboli, nel corso della visione del nuovo film di Pupi Avati, La quattordicesima domenica del tempo ordinario, di cui il nostro è regista e sceneggiatore: il titolo rievoca un elemento autobiografico, ovvero la data del matrimonio del cineasta bolognese, 27 giugno 1964, la domenica che segue la Quaresima e anticipa l’Avvento, mentre la narrazione tende a focalizzare una determinata situazione nel cui ambito pregnanti legami affettivi trovano una brusca interruzione per poi riprendere dopo tanti anni.
Si mette così in moto un sofferto bilancio esistenziale su quanti e quali sogni nel cassetto non siano svaniti alle prime luci dell’alba, andando poi a soppesare se e come si sia andati a mutare, caratterialmente ancor prima che fisicamente, nel vedere infrangersi i propri desideri e le proprie aspirazioni sugli scogli di quelle tante esperienze ed accadimenti che andavano comunque ad arricchire il personale curriculum esistenziale. La storia prende il via già sui titoli di testa, mentre scorrono le immagini in un evocativo bianco e nero di una Bologna degli anni ’50, una visualizzazione di ricordi che troverà il suo punto focale in un chiosco di gelati gestito da un ex musicista, nell’angolo tra Via Saragozza e Via Audinot. In questo posto era sorta l’amicizia, ancora bambini, tra Marzio Barreca e Samuele Nascetti, così come era incorso il fortuito incontro tra il primo e Sandra Rubin, complice il rovesciamento del frappè di lui sul vestito di lei…
Una volta cresciuti Marzio (Lodo Guenzi) e Samuele (Nick Russo) mettevano su un complesso, I Leggenda, mentre Sandra (Camilla Ciraolo) iniziava la carriera d’indossatrice. Il terzetto era destinato presto a ricomporsi dopo un casuale incontro, ma anche a sciogliersi altrettanto repentinamente considerando come la relazione e il seguente matrimonio tra Marzio e Sandra incontravano tutte una serie di problematiche dovute all’immotivata gelosia dell’uomo, per di più con un carattere molto meno forte della compagna, mentre Samuele, dopo il rifiuto di una loro canzone al Festival di Sanremo, andava a preferire ad un’incerta carriera musicale un sicuro lavoro in banca. Arrivati ai giorni nostri, un ormai anziano Marzio (Gabriele Lavia), sopravvissuto a sé stesso nel perpetrare ad oltranza il proprio sogno di divenire musicista affermato, si reca nella banca di cui è direttore Samuele (Massimo Lopez), per chiedere un finanziamento, ricevendo un netto rifiuto, considerando la sua mesta situazione patrimoniale. Nel corso dell’acceso colloquio verrà a sapere che il figlio dell’amico è ormai in fin di vita, causa un male incurabile, infatti morirà da lì a poco, evento che porterà il padre al suicidio.
Proprio il funerale di Samuele sarà occasione per Marzio di rivedere Sandra (Edwige Fenech), andando con la mente indietro nel tempo… Sono ora l’uno di fronte all’altra, tra sogni perseguiti a caro prezzo nella reiterazione di delusioni o aspettative mancate a sostanziarsi quale stanco refrain, come quella della canzone rifiutata a Sanremo ed intonata a piè sospinto in ogni esibizione da Marzio, una carriera ormai lontano miraggio, un amore forse ancora vivo a concedere inedita linfa alla speranza di fermare il tempo a quell’attimo dal sentore magico in cui tutto ciò che si desidera potrà finalmente trovare spazio nella realtà… Fedele al suo tocco intimistico e, per certi versi, favolistico (il ricorso alla voce narrante), Avati porta in scena, forse con qualche affanno nel visualizzare quanto delineato in fase di scrittura, ma ben coadiuvato da elementi tecnici quali montaggio (Ivan Zuccon), fotografia (Cesare Bastelli), musiche (Sergio Cammariere e Lucio Gregoretti) ed interpretazioni attoriali, l’ idealizzazione di un passato a farsi vivida colonna portante di un presente quanto mai fosco e carico di disillusione.
Ecco allora che il flusso a corrente alternata dei ricordi sembra rendere complessivamente giustificabili determinate scelte di vita, espresse coerentemente alla propria essenza più intima e primigenia, ed esternate nell’ambito della propria attività artistica, anche nella consapevolezza del mancato raggiungimento dell’agognato successo, ma coltivando comunque la perseveranza nel ricercare un indomito e personale senso di felicità. Da rimarcare la particolare selezione relativa al cast, che punta su volti poco sfruttati nell’ambito della nostra cinematografia, quando non esordienti (Camilla Ciraolo), ma quasi sempre idonei a conferire una valida espressività caratteriale ai personaggi interpretati, anche se a risaltare, almeno ad avviso di chi scrive, sono il tono dolente e malinconico, ai margini della cupezza, offerto da Lavia al suo personaggio, ed in particolare quel sommesso adattamento alla vita, ma sempre vitale nell’adattarsi al suo scorrere inarrestabile e a tutto ciò che esso comporta nell’alternanza scomposta di gioie e dolori, reso nel personaggio di Sandra da una sempre splendida Edwige Fenech.
Si potrà probabilmente obiettare che La quattordicesima domenica del tempo ordinario rifletta un’estrema classicità nella messa in scena, dal retrogusto “antico” (vedi il ricorso all’effettistica nel visualizzare il chiosco dei gelati a farsi “macchina del tempo”), verso la quale ritengo però sia da esternare un benvenuto. Difficile infatti restare indifferenti all’attenta direzione degli attori, riuscendo di conseguenza a far emergere il rilievo emozionale dei personaggi, concedendo opportuno proscenio al valore dei sentimenti avallando delicatezza ed empatia nel coglierne ogni sfumatura caratteriale. Infine il risalto concesso alle rimembranze, lasciando fluire poesia ed autenticità, offre concretezza a termini che oggi potrebbero apparire desueti, quali rispetto, fiducia, comprensione reciproca, il tutto confluente nell’alveo di una felicità concernente la capacità di attingere dal proprio passato per vivere meglio il presente, nel ricordo di un sentimento da valorizzare nel rispetto di sé stessi e di quanti ci sono vicino, al pari di tutto ciò che ci circonda.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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