
Preso atto di quanto sia stato già oggetto di varie discussioni, con entusiasmo e dissapore a contendersi il campo in eguale misura, mi accingo ad esternare in sintesi il mio pensiero sul film del momento, Barbie, che vede alla regia Greta Gerwig, anche sceneggiatrice insieme a Noah Baumbach, il tutto sotto l’egida Mattel.
Credo sia più semplice iniziare a scrivere cosa, a mio avviso, non è, ovvero un capolavoro conclamato, riconoscendone comunque la profondità allegorica nel porre in scena, tra commedia e musical, un’onesta pellicola per famiglie.
La realizzazione complessiva poi, in declinazione altamente pop, appare piuttosto curata, con tante felici intuizioni a livello di scrittura, vedi il prologo che cita 2001: A Space Odyssey (Stanley Kubrick, 1969), uno dei molti riferimenti cinefili, l’indovinato finale, i dialoghi ironici e allusivi.
La regia si rivela attenta sia a sfruttare una funzionale sinergia con le scenografie (Sarah Greenwood) e la “pastellosa” fotografia (Rodrigo Prieto), sia a rendere ulteriormente incisive le interpretazioni attoriali.
Margot Robbie interpreta con naturalità e trasporto immedesimativo la Barbie Stereotipo, al centro di un percorso formativo che assumerà la consistenza concreta di una rinascita.
Una volta passata dai colori e dal luccichio plasticoso di Barbieland a quelli propri di Los Angeles, acquisirà infatti la consapevolezza di una femminilità che la vedrà quale donna felice e realizzata nell’ambito di una condizione esistenziale autonomamente scelta, coincidente con l’affermazione definitiva di sé, in un continuo confronto con le proprie ed altrui capacità.
Libera da ogni convenzione di sorta, non più “inscatolata” in un sistema che si alimenta di retrivi pregiudizi, sempre in agguato dietro il paravento del politicamente corretto.
A tale ultimo riguardo si può citare il testosteronico consiglio di amministrazione della Mattel, quando Barbie, considerando come nella sua città tutte le posizioni sociali siano declinate al femminile, riflettendo le aspirazioni proprie delle bambine nei loro giochi, nel chiedere lumi al proposito vedrà un impiegato risponderle: “Io sono un uomo senza potere, quindi, tecnicamente, una donna…” .
Altrettanto riuscita l’interpretazione di Ken da parte di Ryan Gosling, che vediamo trasmutare da bietolone funzionale a rivoluzionario in nome del patriarcato, fino ad acquisire anche lui piena coscienza della propria individualità.
Barbie infatti, pur con qualche momento di stanca tra la parte centrale e quella finale, quando ho avvertito le quasi due ore di durata, riesce nell’intento di offrire una valida morale di fondo, tra levità e concretezza: “Nessuna Barbie, nessun Ken dovrebbero vivere nell’ombra”.
Ciascuno di noi per il tramite delle proprie azioni può rendere la diversità quale effettiva portatrice di eguaglianza e non scriminante, nella considerazione della propria specificità di essere umano in quanto tale.
Può, inoltre, offrire un inedito senso al termine creazione, quale contributo all’ideazione e non assoggettandosi come idea, riprendendo in chiusura le parole della protagonista.
Un film da vedere, accogliendolo per quello che è, una commedia pop svagata e profonda al contempo, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo. In tal modo potrebbe anche stupire e dare adito a più di una riflessione, quale, ad esempio, il definitivo volgere le spalle a qualsiasi negatività che impedisca un’effettiva emancipazione ed autodeterminazione, nell’affermazione della propria essenza vitale, sociale e lavorativa.
Immagine di copertina: Movieplayer






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