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Quando, nel corso della visione di un film, già dalla prima sequenza, mi si staglia “un solco lungo il viso come una specie di sorriso” (Fabrizio de André, Il pescatore, 1978), e per giunta vi rimane fino allo scorrere dei titoli di coda, ciò rappresenta il precipuo segnale dell’insorgere di un irreversibile colpo di fulmine nei riguardi di quanto rappresentato sullo schermo.

Il subitaneo innamoramento ha recentemente interessato The Fabelmans, ultima fatica di Steven Spielberg, pellicola di cui è regista e anche sceneggiatore, in quest’ultimo caso insieme a Tony Kushner.

Va in scena la narrazione inerente alla formazione umana ed artistica del cineasta, pudicamente celata dal velo della finzione cinematografica, solita quest’ultima a trasmutare il reale nella forma più idonea al racconto per immagini, fino a delineare, come nel caso dell’opera in questione, un afflato fiabesco idoneo a rendere evidente il passaggio dal particolare all’universale.

Vengono infatti omaggiate tanto le proprie radici, riannodando i fili dei ricordi spezzati, quanto la dimensione propria del cinema quale macchina del tempo, incline, in virtù della sua originaria magia, a riunire più generazioni attraverso la scia di quel raggio luminoso che rende palese “la sostanza di cui sono fatti i sogni” all’interno della sala cinematografica.

The Fabelmans si apre con la sequenza che vede il piccolo Sam (Mateo Zoryan Francis-DeFord), sei anni, in compagnia di papà Burt (Paul Dano), brillante e pragmatico programmatore informatico, e mamma Mitzi (Michelle Williams), donna sensibile la cui carriera di concertista (suona il piano) è stata sacrificata sull’altare della famiglia, della quale fanno parte anche due bambine, Anne (Julia Butters) e Natalie (Keelley Karsten), mentre una terza, Lisa (Sophia Kopera), andrà ad aggiungersi da lì a poco.

I tre stanno per entrare in un cinema in quel di Haddon Township, New Jersey, dove si proietta The Greatest Show On Earth di Cecil B. DeMille: le paure del bambino, al suo primo ingresso in una sala cinematografica, vengono mitigate dalla bonarietà rassicurante dei genitori, ma soprattutto dalla visione del film. Affascinato dalla sequenza in cui un’auto andrà a scontrarsi con un treno, Sam su consiglio di Mitzi provvederà a rielaborare quella vibrante sensazione emozionale, riproducendola tramite il trenino elettrico ricevuto in dono per Hanukkah e provvedendo a riprendere “l’incidente” con la Super 8 paterna.

Una volta cresciuto, ormai adolescente (ora interpretato da Gabriel LaBelle), il nostro ha coltivato ulteriormente la passione per il cinema, di cui è frequentatore abituale, e con l’aiuto degli amici si è messo a girare, assecondando un’artigianale creatività, tutta una serie di filmini, spaziando tra i generi, dal western al bellico.

Potrebbe essere l’inizio di un’attività a lui congeniale, per quanto gli ostacoli lungo il cammino non tarderanno certo a palesarsi, dal padre che vi vede nient’altro che un hobby, alla scoperta, nel corso del montaggio di un filmino familiare girato durante il tradizionale campeggio estivo, di come tra la madre e un amico di famiglia, “zio” Bennie (Seth Rogen), vi possa essere un affetto piuttosto profondo.

Questo episodio farà sì che Sam possa rendersi conto di come il cinema, al di là del naturale intrattenimento, possa anche offrire uno squarcio della realtà a noi estraneo, al di fuori di quella cornice attraverso la quale si è delimitata una sorta di idealizzazione della propria condizione individuale e sociale.

Dopo una profonda crisi e un doloroso confronto con Mitzi, il percorso verrà ripreso anche grazie all’eccentrico zio Boris (Judd Hirsch), un passato circense da domatore di leoni, cui aggiungere una serie di incursioni nel cinema muto, che gli farà notare come chiunque insegua una vocazione artistica dovrà essere disposto a pagarne il fio negli altri ambiti della propria esistenza, perché, probabilmente, citando Oscar Wilde, “la vita imita l’arte più di quanto l’arte non imiti la vita”.

Nel corso della narrazione vediamo poi i Fabelmans trasferirsi, causa il lavoro di Burt, dal New Jersey in Arizona, Phoenix, e poi infine in California, dove Sam verrà a conoscere un ambiente del tutto diverso, subendo l’antisemitismo ad opera dei coetanei, palestrati e arroganti, offrendo loro il benservito senza ricorrere alla violenza, bensì a suon di fotogrammi, un filmino scolastico nelle cui sequenze appariranno realmente per quelli che sono, senza il filtro reso dall’indossare la quotidiana maschera.

Spielberg ancora una volta centra il bersaglio nel coniugare felicemente la resa sinergica tra tecnica registica, profusa anche nella direzione degli attori, sceneggiatura e montaggio (Sarah Broshar, Michael Kahn), così da offrire una costruzione narrativa dall’esemplare fluidità, nonché idonea a far emergere con naturalezza le caratteristiche psicologiche dei protagonisti, a partire dal giovane alter ego del regista.

A restarti maggiormente impressa, almeno riporto la mia personale sensazione, è l’esternazione caratteriale della Mitzi resa con simbiotico trasporto da Michelle Williams: una donna dall’estrema sensibilità, umana ed artistica, irregimentata nella mentalità propria degli anni ‘50, che troverà comunque sfogo ideale nella formazione del figlio, il quale saprà conciliare inclinazione artistica e senso familistico, coniugando la creatività materna col pragmatismo paterno.

Siamo quindi di fronte, sempre a parere dello scrivente e riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, ad una visualizzazione dai toni fiabeschi della realizzazione formativa di un sogno e della sua perpetrazione, distaccandosi dalla mentalità comune per il tramite di una ribellione che trova la sua spinta in una fremente interiorità, dalla quale scaturiscono, dopo accesi confronti con se stessi e quanti orbitano attorno la propria esistenza, sentimenti quali comprensione ed umanità.

Citato antisemitismo a parte, i problemi propri della società del periodo restano sullo sfondo e i mutamenti dei costumi vengono resi soprattutto dalla figura della nonna paterna, con i suoi brontolii.

Non manca l’ironia, spesso spontanea (ad esempio l’iniziazione sessuale di Sam ad opera di una coetanea fanatica cattolica, che provvederà a “convertirlo” nel nome di Gesù…), e poi vi è una sequenza finale che credo possa già definirsi da antologia, ideale prosecuzione di quella iniziale: il bimbetto di sei anni timoroso di entrare nella sala cinematografica è ormai cresciuto, ha accettato il divorzio dei genitori e andrà a metabolizzarlo ulteriormente per il tramite delle proprie realizzazioni filmiche, mentre il padre sembra finalmente assecondarne la propensione artistica, anche perché frequentare l’università comporta a Sam ripetuti attacchi di panico.

Assunto tra gli assistenti alla regia di una produzione televisiva, si accinge a conoscere il più grande regista vivente, John Ford (gustosa interpretazione di David Lynch), il quale nell’elargirgli un prezioso consiglio riguardo la tecnica di regia, lo renderà edotto dei limiti entro i quali può estendersi l’orizzonte cinematografico per essere veramente interessante, ovvero al di fuori dei parametri concretamente realistici e circoscritto sempre e comunque nella dimensione che è propria dell’autore, restituita poi al pubblico, attualizzazione del mito della caverna, nel buio immaginifico della sala cinematografica.

Già pubblicato su Diari di Cineclub N. 120- Ottobre 2023

2 risposte a “The Fabelmans (2022)”

  1. Per me questo rimane uno dei lavori più belli di Spielberg. Uno dei miei preferiti di certo.

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    1. Avatar Antonio Falcone
      Antonio Falcone

      Concordo in pieno. Ne sono rimasto ammaliato, dalla prima all’ultima sequenza. Grazie, un saluto.

      Piace a 1 persona

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