
Una volta giunto a Bologna per prendere parte alla 17ma edizione di Youngabout International Film Festival, kermesse cinematografica rivolta alle giovani generazioni, non potevo certo perdere l’occasione di visionare qualche film tra quelli previsti all’interno del fitto programma dell’ “inaugurazione lunga” (dieci giorni di proiezioni ed incontri), prevista per festeggiare la riapertura al pubblico del Cinema Modernissimo, la sala d’inizio Novecento nel cuore della Città, in Piazza Maggiore, celata nelle viscere di uno degli stabili simbolo della modernità novecentesca bolognese, Palazzo Ronzani, che si erge all’angolo tra via Rizzoli e Piazza Re Enzo.
Sono dunque riuscito a rinvenire i biglietti per Palombella rossa di Nanni Moretti, sabato 25 novembre, e Diabolik. Chi sei?, ultimo capitolo della trilogia dedicata dai Manetti Bros. al Re del terrore, nato dalla fantasia delle sorelle Giussani, Angela e Luciana, nel novembre del 1962, proiettato in anteprima martedì 28 novembre, alla presenza di Marco Manetti, regista insieme al fratello Antonio, e Pier Giorgio Bellocchio, tra gli interpreti della pellicola.

Prima di dare spazio alle recensioni, un mio personale giudizio sul colpo d’occhio offerto dalla sala, veramente d’effetto, nel rispetto dell’architettura generale d’origine, richiamando la percezione di trovarsi all’interno di un set cinematografico, come ha spiegato lo scenografo Giancarlo Basili in un colloquio con Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, che ha preceduto la proiezione del film di Moretti.
Permane soprattutto la piacevole sensazione di sentirsi avvolti in una sorta di placenta protettiva, che ben si accoppia al piacere della visione condivisa propria della visione in sala. Peccato che la fretta nel concludere i lavori nei tempi prefissati, pena la perdita dei finanziamenti, abbia comportato, non certo questione di poco conto, problemi relativi all’accesso delle persone disabili, anche se al riguardo la soluzione dovrebbe arrivare con l’apertura dell’ingresso definitivo, a febbraio.
Egualmente ci si augura possa essere assicurata una visione pari a quella degli altri spettatori, al momento non consentita dai posti previsti, come fatto notare con una garbata rimostranza nel corso della presentazione del film dei Manetti Bros.
Ed ora procediamo alla recensione di Palombella rossa, pellicola scritta e diretta da Nanni Moretti, uscita trentaquattro anni orsono, alla vigilia di epocali avvenimenti, quali il passaggio del Partito Comunista Italiano ad una rinnovata immagine politica e la caduta del Muro di Berlino, ambedue simbolo del crollo di determinate ideologie, o comunque di un loro ridimensionamento.

Un’opera di rilievo, nella sua complessità e variabile chiave di lettura, l’ultima in cui il nostro cela sotto le vesti dell’alter ego Michele Apicella le proprie convinzioni sociali e politiche, nonché il noto bagaglio di vezzi ed idiosincrasie, per poi trovare la chiusura del cerchio, la definitiva accettazione della propria diversità, nei successivi Caro diario e Aprile, con un ulteriore corollario presente nell’ultima realizzazione, Il sol dell’avvenire.
La narrazione vede Apicella, onorevole comunista e giocatore di pallanuoto della Monteverde, fronteggiare la perdita di memoria conseguente ad un banale incidente d’auto. Andrà a riacquistarla gradualmente, alternando una serie di lampi illuminanti ora il presente, ad esempio il ricordo di una tribuna politica televisiva dove gli si rendeva evidente l’inadeguatezza del partito nel far fronte ad una realtà cangiante, ora il passato, bambino “istigato” al nuoto dal volere dei genitori o giovane militante impegnato.
Astioso verso se stesso, così come nei confronti della figlia Valentina (Asia Argento), che pone dei definiti paletti all’ego paterno, e di quanti gli stanno intorno per vari motivi, vedi una giornalista (Mariella Valentini) che lo intervista a colpi di frasi fatte ed aiutandosi con un “bignamino” relativo alla storia del PCI, Michele, una volta conclusa la partita di pallanuoto contro l’Acireale, dovrà mandar giù la definitiva sconfitta, umana e professionale. Il “sol dell’avvenire” si rivelerà nient’altro altro che un’illusione di cartapesta…

La profonda crisi di un partito, la sua perdita identitaria conseguente all’aver fallito la conclamazione concreta di una “eguaglianza nella diversità” nel proporre le alternative per dare vita ad una società più giusta, offrendo solidarietà alle classi meno agiate nella rivendicazione dei loro diritti, fino ad assecondare senza colpo ferire la deriva conseguente all’adeguamento della politica alle modalità personalistiche ed integrarsi infine in un sistema propenso ad uniformare qualsiasi cosa, si staglia lungo l’iter narrativo con ruvida lucidità.
Assecondando l’andamento episodico proprio dell’avvicendarsi dei ricordi riemersi, nella mescolanza di accadimenti privati e pubblici, passato, presente e futuro si rincorrono l’un l’altro nella loro consistenza di terra straniera, tra ritualità celebrative di vecchie certezze e vaga speranza di mutare l’ordine delle cose, come il finale del Dottor Zivago che si vorrebbe sempre diverso o l’indecisione della finta nell’indirizzare la metaforica palombella fatale.
Un dolente e consapevole flusso di coscienza, rimarcando l’avanzare di un linguaggio oramai standardizzato sulla vacuità dei cliché omologanti declinati in forma breve, soverchiando l’idea di una rilevanza della parola nell’incedere quotidiano (“Chi parla male pensa male e vive male”).
Una sorta di presagio sul come andranno le cose da lì in avanti, in un mondo dominato dal caos dei valori, dove le armi dell’ideologia, pur elevate a livello fideistico, non bastano più per poter vivere decentemente. Il tutto nell’ambito di un percorso al cui termine essere se stessi andrà a comportare una scelta tra la solitudine e il fare la differenza nell’ambito di una minoranza di persone.
Sarà così possibile preservare un’integrità di pensiero ed una correttezza morale di fondo, pur con gli inevitabili adattamenti che il vivere sociale spesso richiede e facendo i conti con la propria evoluzione nel corso degli anni, fino ad escogitare quel compromesso ravvisabile ne Il sol dell’avvenire, ad avviso di chi scrive ideale prosecuzione di Palombella rossa: riscrivere la Storia, immaginando che determinati accadimenti abbiano avuto una diversa conclusione, consona ad una personale idealizzazione sociale, perché, come l’autore ha dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera, “Il cinema non si fa solo per compiacersi di raccontare una brutta realtà. Il cinema si fa anche per sognare una bella e diversa realtà”.

Ed ora andiamo a scrivere di Diabolik. Chi sei?, ultimo capitolo della trilogia dedicata al “re del terrore” ad opera dei Manetti Bros., registi ed autori della sceneggiatura insieme a Michelangelo La Neve, deceduto nel gennaio del 2022, cui l’intero progetto è dedicato.
La visione mi ha ulteriormente entusiasmato rispetto ai due titoli precedenti, confermando e riproponendo la mia considerazione nel ritenere la saga fortunatamente molto distante dai muscolari e obnubilanti giri di giostra dei cinecomic americani.
Espressione di un atto d’amore nei confronti del fumetto d’origine, la trasposizione va a rappresentare in buona sostanza una personalissima via italiana al cinefumetto, tra citazioni e rimandi alle tavole disegnate, ammiccando ora all’atmosfera dei gialli anni ’60, ora al nostrano poliziottesco d’epoca.
Inoltre, come già nel secondo capitolo, appare evidente una maggiore coesione narrativa, congiunta ad una più incisiva concretezza delle proprie capacità autoriali. La narrazione prende il via nella Clerville degli anni ’70: Diabolik (Giancarlo Gianniotti) e la sua degna compagna, l’affascinante Eva Kant (Miriam Leone), hanno architettato nei minimi particolari un piano per impossessarsi delle preziosa collezione di monete appartenente alla contessa Wendemar (Barbara Bouchet).
Nel pregustare la perfetta riuscita del colpo non potevano però predire, tra i possibili imprevisti, che nella stessa banca dove ne era prevista l’esecuzione potesse esservi una rapina ad opera di una banda di spietati criminali, né che uno dei malviventi andasse a rubare anche la citata collezione di monete, facendo fuori la contessa. L’intervento della Polizia, con conseguente scontro a fuoco e successivo, vano, inseguimento, lascerà comunque una vittima sul campo.
Uno dei rapinatori resterà infatti gravemente ferito e l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea), che nel frattempo ha ricevuto la visita in segreto della compagna Altea Von Waller, duchessa di Vallenberg (Monica Bellucci), si augura sopravviva per ottenere ogni informazione possibile.
Intanto metterà sotto torchio la moglie, non ricavandone nulla, decidendo poi di farne sorvegliare le mosse ai suoi agenti. Identica idea sovviene a Diabolik ed Eva, così da appropriarsi delle monete e dell’ingente bottino, fino a quando “il dannato ispettore” e “il maledetto criminale” non si troveranno a seguire la stessa pista e trovarsi infine faccia a faccia in un’incresciosa situazione…

Confermo quanto scritto relativamente ai due precedenti titoli sulle valide interpretazioni offerte dai principali protagonisti, a partire dall’ Eva Kant delineata da una magnetica Miriam Leone, affascinante e grintosa, passando poi per il granitico ispettore Ginko, ottimamente reso da Valerio Mastandrea nel dare adito a quel misto di pervicacia e rassegnazione, ammirazione e compassione, proprio di un uomo che ha fatto della caccia all’ “uomo dai mille volti” una ragione di vita.
Una condotta esistenziale del tutto in linea con gli ideali di legge e giustizia cui aderisce con convinzione e sul cui altare ha sacrificato i sentimenti. Valido il Diabolik di Giacomo Gianniotti, sguardo ambiguo e sorriso beffardo, così come è valida l’Altea raffigurata con fare divertito, vedi l’ostentato accento esotico, da Monica Bellucci. L’approccio autoriale è ora più movimentato e profondo, libero da prefissati schematismi nel seguire gli stilemi propri del cinema degli anni ’70, tra movimentati split screen e un frenetico ma funzionale ricorso allo zoom.
Da rimarcare poi al riguardo una colonna sonora in stile funky, Pivio e Aldo De Scalzi, che prende il via già dalla coinvolgente sequenza iniziale sulla quale si stagliano i titoli di testa con le note di Ti chiami Diabolik (eseguita dai Calibro 35 ed Alan Sorrenti). Sempre felice la sinergia tra le “pastellose” tonalità della fotografia (Angelo Sorrentino), la cura profusa nella scelta dei costumi (Ginevra De Carolis) e il creativo lavoro sulla scenografia (Noemi Marchica), inteso a congiungere la resa visiva di città come Bologna e Roma nel raffigurare Clerville.

Una citazione a parte merita la visualizzazione in un bianco e nero dai toni espressionisti del passato di Diabolik, che prende il via da quel dolente “Non so chi sono” esternato come risposta alla domanda di Ginko che dà il titolo al film e all’omonimo albo (il numero 107 del 4 marzo 1968) di cui costituisce un libero adattamento, con una azzeccata e gustosa caratterizzazione del boss King ad opera di Paolo Calabresi.
Indovinata anche l’accoppiata Eva-Altea, felicemente complici nelle difficoltà. Quindi, andando a concludere e riprendendo quanto scritto, Diabolik. Chi sei? rappresenta, almeno a mio avviso, la degna conclusione di una trilogia che ha avuto il merito non solo di riportare a galla quella miscellanea, spesso geniale, tra intuitiva creatività e sapida artigianalità propria di certe nostre produzioni, ma anche di smuovere quell’appiattimento omologante generato da varie realizzazioni “pronto cuoci”.
Onore al merito per i Manetti Bros., che mantenendosi distanti da mirabilie visive vacuamente spettacolari, sono riusciti ad offrire nella visualizzazione filmica, resa nelle immagini a noi spettatori, quella sensazione immersiva che si prova nella lettura di un albo a fumetti, a cavallo della fantasia, sospesi a mezz’aria tra un balloon e la realtà che ci richiama all’ordinarietà quotidiana.







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