Prosegue la pubblicazione delle recensioni relative ai film da me visionati tra quelli proiettati al Cinema Odeon di Bologna nell’ambito della 17ma edizione di Youngabout International Film Festival, rivolti alle scuole secondarie di primo e secondo grado, titoli che hanno riscosso interesse e gradimento da parte del giovane pubblico, stimolando la proposizione di varie domande nel corso del dibattito seguente alla proiezione.

Vado dunque a scrivere di Shabu, una produzione Paesi Bassi/Belgio che vede Shamira Raphaela regista e sceneggiatrice, e poi di Rudy, produzione indipendente inglese, per la regia di Shona Auerbach, autrice anche della sceneggiatura insieme a Diane Allton.  Il primo è un particolare ed intrigante documentario, il cui iter narrativo segue la quotidianità del quattordicenne Shabu nel corso dell’estate del 2021, che il nostro andava a trascorrere lavorando come venditore di ghiaccioli e commesso in un supermercato.

In questo modo, infatti, i genitori intendevano far sì che guadagnasse il danaro necessario a risarcire la nonna dell’ingente danno causato alla sua automobile, in seguito ad un incidente incorso dopo averla guidata di nascosto, per non parlare poi delle tante multe collezionate. Il ragazzo non trascurava comunque la frequentazione del caro amico Yusu e della fidanzata Stephany, egualmente alla sua passione per la musica.

Shabu infatti scriveva e componeva canzoni rap, coltivando il sogno di diventare un cantante famoso,  dandosi da fare per organizzare una festa nel quartiere di residenza, il De Peperklip di Rotterdam, con ingresso a pagamento, così da raggranellare più rapidamente la somma necessaria a rifondere la nonna, che ormai non gli rivolgeva da tempo la parola…

Avvolto in una fotografia (Jurgen Lisse, Jefrim Rothuizen, Gregg Telussa, Rogier Timmermans) che accentua i colori accesi propri della stagione estiva e ritmato nello scorrere della narrazione da una colonna sonora (Michael Varekamp) del tutto funzionale e “aderente” alle immagini, Shabu si avvale di una regia che, senza essere invasiva, pedina letteralmente il protagonista, offrendo alla visuale di noi spettatori la sua graduale evoluzione caratteriale.

Il ragazzo preserva, sempre e comunque, una certa purezza di fondo, idonea, tra l’altro, ad offrirgli una “visione altra” della realtà che lo circonda, a partire dal quartiere in cui vive.

Quest’ultimo, infatti, non gode certo di una buona fama, circostanza intuibile da noi spettatori in virtù di qualche breve inquadratura sui particolari conseguenti al verificarsi di un evento criminoso. Ecco allora che Shabu passa dall’indolente strafottenza iniziale ad una graduale presa di coscienza relativa alle proprie responsabilità, nella piena consapevolezza relativa a quelle priorità di cui assecondare l’andamento, anche a costo di qualche sacrificio lungo il cammino.

Emblematica al riguardo la sequenza che vede il giovane cimentarsi in un particolare “rito purificativo” suggerito da un discorso del fratello maggiore, il quale andrà ad anticipare la celebrazione prevista dalla comunità di appartenenza, caraibico-olandese, con la quale si è soliti ufficializzare l’ingresso nell’età adulta.

Si offre così rilievo all’assunzione di una consapevolezza decisionale individuale nel prendere parte alla quotidiana recita sul palcoscenico della vita, una riconciliazione sia con se stesso che con quanti gli sono vicino, parenti e amici. Spazio allora all’emozionante sequenza finale, l’abbraccio riconciliatorio tra Shabu e la nonna, con un salutare pianto liberatorio che ha il sapore di una consacrazione della propria individualità diversificante.

Una realizzazione certo insolita nell’ambito del genere documentario, diretta e sincera nello strizzare l’occhio ai giovani, al riparo da ogni compiacimento di sorta, indirizzandoli verso un percorso educazionale dall’indubbio impatto empatico.

Ed ora vado a scrivere del film Rudy, che ha quale principale ambientazione la città inglese di Coventry, in particolare le zone agresti del Warwickshire. Qui vive in una fattoria l’adolescente Rudy Wallace (Ester McCormich), conducendo un’esistenza che la vede frequentare la scuola ed aiutare il padre Thomas (Darren Day) nei lavori quotidiani, oltre a fare da babysitter ai fratelli più piccoli, Charlie (Rollo George) e Tissy (Alice Knights).

La madre, infatti, è deceduta da poco e la ragazza sta elaborando a fatica la dolorosa perdita, avvertendone tanto la presenza quanto la mancanza in ogni angolo della casa, volgendo sguardi dolenti alle tante suppellettili, ai vari oggetti, a qualche vestito riposto nell’armadio, tutta roba che presto andrà a trovare posto nel pattume, un rito emblematico nel contribuire a dare forma alla necessità di andare avanti.

Rudy avvertirà poi come un’invasione dei propri spazi e ricordi la decisione paterna di mettere in affitto una camera, adottando la formula bed and breakfast, che verrà presto occupata dall’anziana Dorothea (Sylvia Lorden).

Il suo passato da ballerina e l’esternato catalogo di varie eccentricità, conferiranno presto un rinnovato senso di colore, e calore, all’interno del gruppo familiare, conquistando soprattutto la piccola Tissy, ma riuscendo anche a mitigare il fare umbratile di Rudy, che andrà poi a prendere assaggio di un inedito senso di spensieratezza nel conoscere Luke Kennedy (Kanune Morrissey), di poco più grande, che vive in un appartamento insieme alla nonna paterna, sopra il negozio di scarpe da lei gestito…

Rudy si offre alla visione come un’opera dai toni intimisti e coinvolgenti, scritta e diretta con sensibilità, dando adito all’urgenza di offrire spazio a determinate tematiche quali quelle relative ad una personalità in crescita che si trova ad affrontare una serie di problematiche esistenziali nel far fronte ad inedite responsabilità e consapevolezze. La pellicola può inoltre vantare un ottimo lavoro sulla fotografia (Graeme Dunn, marito della regista), volto a conferire una certa naturalezza alla resa visiva della narrazione, sfruttando in particolare i vividi colori propri della campagna inglese.

D’indubbio impatto emozionale la colonna sonora e le inquadrature volte agli ambienti, agli oggetti, così come i primi piani volgenti verso i volti e gli sguardi, a scandagliare con delicatezza il dolore rappreso delle reminiscenze e la volontà di conferire un rinnovato senso esistenziale alla propria quotidianità, come evidenziato dall’incisivo parallelismo tra la figura di Rudy, resa con vibrante trasporto immedesimativo da  Ester McCormich, e quella del padre Thomas.

L’una appare combattuta tra la voglia di normalità inerente alla propria età e una responsabilità indotta precocemente dagli eventi, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, con l’amore a dare inedito slancio vitale, l’altro invece sembrerebbe propenso a lasciarsi tutto alle spalle e rimettersi in gioco anche da un punto di vista sentimentale.

Due differenti modi di elaborare una perdita, con l’intermediazione di uno scontro incline a trasmutarsi in incontro chiarificatore, fino a giungere ad una ritrovata complicità nel fronteggiare insieme un presente che sa fare proficua memoria del passato.

Un racconto di formazione, andando a concludere, contornato dagli “affetti speciali” della sincera emozionalità e del trasporto empatico, che pone sullo stesso piatto della bilancia vita e morte quali necessari contrappesi per conferire un congruo significato all’ordinarietà esistenziale, nel suo scomposto alternarsi di gioia e dolore.

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