
Si conclude con il seguente articolo la pubblicazione delle recensioni relative ai film da me visionati tra quelli proiettati al Cinema Odeon di Bologna nell’ambito della 17ma edizione di Youngabout International Film Festival, rivolti alle scuole secondarie di primo e secondo grado.
The Gift (Belek), scritto e diretto da Dalmira Tilepbergen, originaria della regione Issyk-Kul del Kirghizistan, e Spare Keys (Fifi), opera prima dei francesi Jeanne Aslan e Paul Saintillan (anche autori della sceneggiatura, con la collaborazione di Agnès Feuvre), sono tra i titoli che hanno riscosso un particolare interesse ed un notevole gradimento da parte del giovane pubblico, stimolando la proposizione di varie domande nel corso del dibattito seguente alla proiezione.
The Gift ha come scenario narrativo una zona montana del citato Kirghizistan, nell’Asia centrale: qui vive, insieme ai genitori, le quattro sorelle e il nonno, la piccola Arno. Una bimba vivace e intraprendente, che assume gagliardamente atteggiamenti maschili, a sfidare quelle convenzioni proprie di una comunità dove il patriarcato assume tutta la consistenza propria di un atavico rituale, anche nell’ottica dei vari lavori quotidiani comportanti, ad esempio, la conduzione delle mandrie.
Il padre, infatti, considera la venuta al mondo delle cinque figlie come una grave sciagura, tanto da cercare di propiziarsi la sorte con talismani e preghiere perché l’ultima gravidanza della consorte comporti la nascita di un maschio.
Arno poi, in virtù di un neo che si ritrova sulle labbra, è convinta di possedere un particolare dono, far sì che ogni suo desiderio possa trovare esaudimento, ma un giorno, contrariata da quel padre che non vuole saperne del suo aiuto solo perché femmina, andrà ad esprimerne uno, particolarmente violento, rivolto proprio al genitore…
Sulla base delle proprie esperienze e dei propri ricordi esistenziali, l’autrice visualizza nell’ambito di uno sfondo in cui la natura sembra ancora dettare legge nel succedersi degli eventi e nell’assecondare o meno i voleri umani, una determinata situazione relativa alle tematiche della parità di genere, legata certo alle situazioni socio-culturali proprie della regione, ma i cui risvolti vanno ad assumere una portata universale.
Non bisogna infatti dimenticare che anche nei paesi occidentali, al colmo di un benessere prettamente materiale, orfano di una concreta evoluzione, le varie previsioni legislative non sempre appaiono sufficienti a superare stolidi e retrivi retaggi, vividi o latenti, per cui occorre mantenere sempre vivo il fuoco di quella battaglia intesa a conquistare una emancipazione, e relativa autodeterminazione, che si vorrebbero patrimonio definitivamente assunto e condiviso, annientando qualsivoglia negatività al riguardo.
Diretto con piglio realistico, dall’impronta quasi documentaristica, circoscrivendo attraverso accorte inquadrature ambienti e persone, assecondando poi l’incedere “naturale” della narrazione, appena mediata dal filtro della sceneggiatura, The Gift ci regala un finale particolarmente emozionante, che andrà ad assumere una portata metaforica, sensazione che ho potuto condividere con la regista nel corso di un’intervista: si nasce non come maschio o femmina, bensì nella qualità di persona e in quanto tale si andrà a lottare per l’affermazione della propria individualità.
Tutt’altra ambientazione, invece, per Spare Keys, ovvero un quartiere periferico a nord di Nancy, in Francia, comunque sempre emblematica nell’offrire congrua cornice a determinate problematiche, quali quelle inerenti alle differenze relative ad una diversa estrazione sociale, o conseguenti alle scelte che la vita ci costringe a mettere in atto, avviandoci verso inedite consapevolezze, quando non sofferte rinunce.
La quindicenne Sophie, detta Fifi (Céleste Brunnquell), vive in uno dei tanti anonimi caseggiati tipici dei sobborghi cittadini, al cui interno squallore e privazione, disordine e approssimazione, vanno ormai di pari passo nel contornare una quotidianità che la vede membro di una numerosa e variegata famiglia, la madre, il patrigno, cinque tra fratelli e sorelle di variabile età, un nipotino. La situazione economica non è certo delle più floride, tra bollette scadute, conti da pagare e qualche piccolo furto, come quello relativo ai pacchetti di sigarette, viene visto nell’ordine delle cose.
Sophie però sembra non dolersene, quello che vorrebbe è solo uno spazio tutto per sé, dove starsene in silenzio ad offrire compagnia ai propri pensieri. L’occasione propizia le si presenterà quando incontrerà una compagna di scuola, in partenza con la benestante famiglia per le vacanze estive, che l’inviterà ad entrare in casa così da restituirle dei soldi avuti in prestito: notate le chiavi di riserva, per Sophie sarà questione di un attimo appropriarsene, per poi fare ingresso nella agiata dimora.
Non ha però messo in conto l’arrivo imprevisto del fratello dell’amica, Stéphane (Quentin Dalmaire), ventitreenne studente di Economia a Parigi, che, dopo un breve disorientamento, l’inviterà a restare, così da aiutarlo nello svolgimento di un lavoro estivo… In Spare Keys regia e sceneggiatura vanno felicemente di pari passo nel mettere in scena una “umana commedia” che, attraverso le immagini e i dialoghi, il loro susseguirsi assecondando un andamento narrativo funzionalmente ponderato, riesce a delineare tanto il ritratto di due ambienti sociali del tutto differenti, quanto, in particolare, la raffigurazione di due diversi caratteri, nell’alternarsi di poche certezze e tante titubanze.
Ecco stagliarsi allora l’assunto di come a volte ci si possa trovare “nel posto giusto al momento giusto”, ma anche l’eventualità, ricercata, meditata e sofferta in eguale misura, che non tutto ciò che desideriamo debba necessariamente trovare attuazione.
Due personalità a confronto, “così eguali, così diverse”, entrambe volte, con differenti modalità e motivazioni, anche pregresse, al traghettamento verso un atteggiamento esistenziale più maturo e consapevole della propria precipua essenza: l’una, quella dell’adolescente Fifi, cui Céleste Brunnquell offre il realismo di un pragmatico disincanto, appare già abbastanza nitida nell’accettare quanto la vita le ha proposto “qui ed ora”, facendo tesoro di ogni momento vissuto per la costruzione progressiva di una piena consapevolezza di sé, rendendosi poi cartina di tornasole riguardo quella di Stephane.
Quest’ultimo appare ancora incerto sul cammino da intraprendere, già vi sono state delle deviazioni dall’itinerario prefissato, ma è anche attratto dall’indole di quella ragazzina, ne ammira il carattere sincero, diretto, tutto il contrario di quanto emerge, tra vacuità ed esteriorità, dalla cerchia amicale che è solito frequentare.
E’ però abbastanza maturo e sensibile da circoscrivere questo salutare incontro nella dimensione propria della “rosa non colta” cara a Gozzano, preservando il ricordo di “ciò che poteva essere e non è stato”.
L’intelligenza degli autori nello smarcarsi da qualsiasi stereotipo proprio di un racconto di formazione trova la sua conclamazione nel bel finale, che si smarca dal rituale “happy end”, almeno nel senso “classico” del termine, avallando piuttosto la compiuta cognizione ad opera della protagonista riguardo una del tutto personale emancipazione, idonea a condurla verso la libertà e la felicità.






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