
Iraq del Nord, anni ’70. L’anziano sacerdote cattolico Lankester Merrin (Max Von Sydow), nel corso di uno scavo archeologico rinviene una medaglietta con l’effige di San Giuseppe e subito dopo una strana statuetta, raffigurante un demone assiro, Pazuzu. Georgetown, Washington, il giovane prete gesuita greco-cattolico Damien Karras (Jason Miller), medico psichiatra alla locale università, è costretto a trasferire la madre malata, tra sensi di colpa e una fede che vacilla, in un modesta struttura di cura, dove da lì a poco l’anziana donna morirà; nella stessa città, in una grande casa, vive l’attrice Chris MacNeil (Ellen Burstyn), originaria di Los Angeles, impegnata nelle riprese di un film.
Separata dal marito, ha una figlia 12enne, Regan (Linda Blair), la cui routine adolescenziale viene improvvisamente sconvolta da ripetuti e in apparenza inspiegabili malesseri (strani sogni, furore isterico, cambio di voce, eloquio scurrile), che si accompagnano ad altrettanto inspiegabili fenomeni di varia natura che vanno a palesarsi all’interno dell’abitazione (sinistri rumori provenienti dalla soffitta, finestre e porte che sbattono violentemente, il letto che si muove come squassato da una forza di oscura natura).
I lunghi, dolorosi, esami medici e le visite psichiatriche non ne vengono a capo, per cui dalla diagnosi di “sdoppiamento della personalità” causato da “stato patologico e una forza anormale”, con la possibilità di una insolita forma di sonnambulismo, ecco farsi spazio, tra l’incredulità, l’ipotesi di una possessione diabolica, da sconfiggere con un esorcismo, in particolare dopo la misteriosa morte del regista Burke Dennings (Jack MacGowran), amico di famiglia, sulla quale indaga il tenente di polizia Kinderman (Lee J. Coob).
Dopo l’intervento di Karras in qualità soprattutto di psichiatra, si chiederà l’aiuto di padre Merrin, dando il via ad una battaglia dai contorni terribili e dagli esiti devastanti.
Sono molti, nella storia della Settima Arte, i film divenuti fenomeno di costume, nonché origine di veri e propri generi, grazie alla sagace intuizione di aver saputo cogliere il momento adatto nel produrli e girarli, senza risultare necessariamente dei capolavori ma certo delle opere propense ad imporre inediti stilemi rappresentativi, in questo caso nell’ambito del genere horror. In tale novero, almeno a parere di chi scrive, può farsi rientrare L’esorcista, uscito in sala il 26 dicembre del 1973 per la regia di William Friedkin, regista dal polso fermo, attento tanto al rapporto forma-contenuto, quanto alle esigenze commerciali.
Il soggetto si basava sull’omonimo best seller di William Peter Blatty, autore della sceneggiatura, a sua volta ispirato da un articolo del Washington Post dell’agosto 1949 che narrava di un presunto esorcismo praticato ad un ragazzo di 14 anni a Mount Rainier, nel Maryland. Blatty vendette i diritti del romanzo alla Warner Bros., per poi scrivere un primo adattamento per il grande schermo.
Dopo la proposta di dirigerlo a registi quali Stanley Kubrick, Arthur Penn e Mike Nichols, tutti non disponibili per diversi motivi, la scelta ricadde su Friedkin, tra i componenti degli emergenti Movie Brats, per lo più giovani talenti provenienti dal cinema indipendente e nuovi autori formatisi in televisione, che all’inizio degli anni ’70 contribuirono alla nascita del movimento noto come New Hollywood, ispirato soprattutto dalla “politica degli autori”, i diritti del regista quale padrone assoluto del linguaggio cinematografico.
Hollywood tornava quindi a produrre gli horror con una buona disponibilità di mezzi finanziari, come negli anni trenta, e gli effetti speciali (Dick Smith) divenivano, per la prima volta, parte integrante della narrazione, in particolare quelli sonori.
Ecco allora la teatralizzazione, delineata con studiata ponderatezza, della tematica inerente alla fragile delimitazione tra Bene e Male e dello scontro conseguente, provvedendo a porre in scena come pedine su di una scacchiera i vari personaggi che troveremo poi riuniti nel tragico finale, rivelandone le caratteristiche comportamentali e relative psicologie caratteriali.
Pur se molti effetti, a distanza di tempo, possono apparire datati (la testa di Regan che ruota a 360 gradi, il vomito verde), in particolare per quanti abbiano perso il contatto con la magia di un cinema volto più che a nascondere i suoi trucchi e renderli realistici, a palesarli in modo evidente, in un continuo gioco di affabulazione con gli spettatori, è innegabile come l’impatto emotivo risulti tuttora emozionante e disturbante, estremamente realistico, giocato sul parallelismo tra le differenti psicologie dei protagonisti e l’aura di continua attesa contornata da una certa ambiguità di fondo.
Ecco allora il succedersi, assecondando un piglio quasi documentaristico, di tutti gli esami cui viene sottoposta la povera ragazza, rimarcato dalla quasi totale assenza della colonna sonora e dalla fotografia di Owen Roizman, mentre il dramma della possessione si insinua in crescendo, in guisa di “prevedibile non previsto”.
Il conflitto tra le due forze in campo, come credo notato da molti (ad esempio Daniela Catelli in Ciak si trema, costa& nolan, 2007 ) si avvolge di una tangibile metafora nel rinvenire quale congruo scenario non il classico vecchio e isolato maniero, ma una casa borghese, devastata nella sua quotidianità dall’irrompere dell’irrazionale, trovando poi fertile campo nei meandri delle coscienze in crisi, vuoi causa perdita della fede, vuoi, per i non credenti, causa abbandono di una qualsivoglia appiglio spirituale, ma anche nel limite riscontrato relativamente alla fiducia da esternare riguardo quanto scienza e progresso dovrebbero assicurare a livello di razionalità e conquiste sociali.
Tubular Bells, tratto dall’omonimo album di Mike Oldfield, 1973, è il motivo dominante della colonna sonora, comprendente, tra l’altro, brani del compositore polacco Krzysztof Penderecki e alcune musiche originali di Jack Nitzsche. L’esorcista conseguì due premi Oscar (miglior sceneggiatura non originale, William Peter Blatty, e sonoro, Robert Knudson e Christopher Newman) su dieci candidature* e diede vita a tre seguiti, L’esorcista II – L’eretico (Exorcist II: The Heretic, John Boorman, 1977), L’esorcista III (The Exorcist III, William Peter Blatty, 1990), L’esorcista – Il credente (The Exorcist: Believer, David Gordon Green, 2023).
Nel 2000 si diede vita ad un restauro dell’originale, reintegrando alcune scene, riprendendo la pubblicazione in DVD del 1998, in occasione del 25mo anniversario dall’uscita nelle sale cinematografiche, comprensiva dii un finale alternativo esteso, intitolata The Exorcist: The Version You’ve Never Seen (l’edizione italiana riportava il titolo “versione integrale”), con circa undici minuti di scene inedite.
Il finale originale era inserito tra i contenuti speciali, mentre quello alternativo ne prendeva il posto, infondendo un certo ottimismo di fondo rispetto all’ambiguità presente nella versione uscita originariamente in sala.
Da ricordare anche le parodie L’Esorciccio (Ciccio Ingrassia, 1975) e Riposseduta (Repossessed, Bob Logan, 1990), la serie televisiva in due stagioni (2016-2017) della Fox, il prequel L’esorcista – La genesi (Exorcist: The Beginning, Renny Harlin, 2004), ed infine lo spin off/prequel Dominion: Prequel to the Exorcist (Paul Schrader, 2005).
*Le restanti otto candidature erano: Miglior film, William Peter Blatty; Migliore regia, William Friedkin Miglior attrice protagonista, Ellen Burstyn; Miglior attore non protagonista, Jason Miller; Miglior attrice non protagonista, Linda Blair; Migliore fotografia, Owen Roizman; Migliore scenografia, Bill Malley e Jerry Wunderlich; Miglior montaggio, John C. Broderick, Bud S. Smith, Evan A. Lottman e Norman Gay.
Rielaborazione e approfondimento, in qualità di testo per la puntata della trasmissione Sunset Boulevard andata in onda su Radio Gamma Gioiosa martedì 4 gennaio 2024, di un mio articolo scritto il 15 luglio 2010.






Lascia un commento