
New York, Libreria Rizzoli. La scrittrice Ingrid Parker (Julianne Moore), sta firmando le copie del suo ultimo romanzo, incentrato sulla personale paura della morte, accadimento che, a quanto sostiene, non dovrebbe riguardare alcun essere vivente. In fila vi è anche Stella (Sara Demeestere), che la informa di come la comune amica Martha Hunt (Tilda Swinton), reporter di guerra, sia ricoverata in ospedale a causa di un tumore. Nonostante le loro strade si siano divise da tempo, ricordando quanto vissuto insieme, hanno anche frequentato lo stesso uomo, Damian (John Turturro), professore e conferenziere, Ingrid si reca a farle visita. Martha l’accoglie amorevolmente, confidandole come il male abbia colpito la cervice e sia ormai all’ultimo stadio. Ha comunque intenzione di sottoporsi ad una immunoterapia sperimentale, che potrebbe rivelarsi risolutiva.
La complicità che le univa in passato non sembra essere scemata, Martha racconta ad Ingrid le esperienze lavorative e personali: molto giovane, ha avuto una figlia, Michelle, nata da un rapporto occasionale con Fred (Alex Høgh Andersen), un reduce dalla guerra del Vietnam, che andava poi a sposare un’altra donna, trovando la morte dopo essersi lanciato all’interno di un’abitazione in fiamme, asserendo di aver sentito delle declamazioni d’aiuto. Il rapporto con Michelle negli anni diveniva sempre più conflittuale, tanto da prendere definitivamente le distanze l’una dall’altra.
Una volta che la terapia si rivelerà fallimentare e le metastasi si diffonderanno capillarmente, Martha prenderà una decisione estrema, comperando una pillola sul dark web: porrà fine alla sua esistenza prima che il male manifesti gli effetti più devastanti, chiedendo ad Ingrid di trascorrere insieme il tempo che rimane in una casa nei boschi presso Woodstock: dormirà nella stanza accanto alla sua, quando vedrà la porta chiusa quello sarà il segnale dell’addio… Ispirato al romanzo What Are You Going Through di Sigrid Nunez, 2020, La stanza accanto, scritto e diretto da Pedro Almodóvar, presentato in concorso alla 81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha conseguito il Leone d’Oro come Miglior Film, è un’opera che mi ha emozionalmente avvinto nel corso della visione, fino allo scorrere dei titoli di coda.
Ho apprezzato infatti l’eccellente prova attoriale del duo Moore – Swinton, con quest’ultima a rendere un’interpretazione particolarmente intensa e toccante, così come l’abilità profusa dall’autore nel porre in scena una narrazione intesa ad abbracciare con notevole eleganza formale gli stilemi propri del melodramma a lui cari da sempre, vedi i colori accessi degli arredi (le scenografie sono di Inbal Weinberg) , in sintonia con i costumi (Bina Daigeler) ed esaltati dalla fotografia pittorica di Eduard Grau, che richiama esplicitamente in molte inquadrature i quadri di Edward Hopper e di altri pittori americani.
Nella essenzialità resa dai bei dialoghi, vi è anche spazio per il thriller, esplicitato dalle reminiscenze hitchcockiane della colonna sonora di Alberto Iglesias, con una palpabile suspense che si sostanzia nell’attesa della decisione ultima di Martha, ed emblematizzato poi dal giornaliero salire le scale che conducono alla sua stanza da parte di Ingrid. La mia idea è che il primo lungometraggio girato in lingua inglese dal cineasta iberico, ma le cui riprese si sono svolte in Spagna, vada a rappresentare non tanto o, meglio, non solo, un’opera ideologica sulla liceità dell’ autodeterminazione intesa a porre fine, in determinate circostanze, alla personale esistenza terrena, a mio avviso sacrosanta, in quanto, considerando come non si scelga di venire al mondo, credo che almeno debba essere lasciata la possibilità di chiudere personalmente il sipario quando l’esistenza si riduca a nient’altro che ad assecondare un fantasmatico simulacro di sé.
Ecco allora che, nel rendere lo sguardo di Ingrid parallelo a quello degli spettatori, Almodóvar, nel rimarcarne la non accettazione della comunanza mortale, intende celebrare in primo luogo l’avventura esistenziale in sé e per sé considerata, al netto di ogni esperienza, lieta o dolorosa che sia, tra rimpianti e voglia di non arrendersi (l’intarsio dei flashback inerenti ai trascorsi di Martha), nutrendo l’anima di quella bellezza che tuttora esiste e resiste, rinvenibile in quanto ci circonda, ad esempio nella magnificenza di un paesaggio ancora incontaminato, nella premurosa vicinanza di una persona cara, o, ancora, in ogni espressione della creatività artistica, come la maratona filmica che accompagna il susseguirsi delle giornate trascorse insieme dalle due amiche, che va da Buster Keaton a Max Ophuls, passando per la Ingrid Bergman del rosselliniano Viaggio in Italia e concludendo con The Dead di John Huston, tratto dall’omonimo racconto di James Joyce, contenuto nel romanzo Dubliners, 1914.
La morte, allora, non potrà che essere considerata come la curva della strada, morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento i tuoi passi esistere come io esisto. La terra è fatta di cielo (Fernando Pessoa), ovvero un ulteriore passaggio verso una inedita dimensione, manifestamente terrena, assicurata da chi intenda prendere il testimone di quanti non vi sono più, “resuscitandone” figura e comportamenti. Quanto testé scritto viene reso dall’emblematico finale, circoscritto da una insolita nevicata, su cui cadono i versi che a loro volta vanno a chiudere il citato The Dead: La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti.
Infine, come già nel precedente Madres paralelas, la storia individuale si rivela idonea a confluire, in un rapporto di reciprocità, in quella universale, per il tramite delle parole di Damian, che esterna ad Ingrid il timore per tutto ciò di cui l’umanità non sembra avvedersi, dal mutamento climatico all’ascendere generalizzato delle destre, fino alla supremazia incontrastata delle politiche neoliberiste, assecondando un’esistenza che sa già di morte, orfana di tutto ciò che può generare la vera bellezza, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo.
Andando a concludere, La stanza accanto è, ad avviso del vostro amichevole cinefilo di quartiere, un film assolutamente da vedere, visivamente stupendo, esaltato dalle intense interpretazioni di due attrici in stato di grazia, i cui rispettivi caratteri, nelle loro diversità, vibrano sempre e comunque di calore umano. Una pellicola adusa a rammentarci come l’esistenza meriterebbe di essere vissuta nella piena coscienza del suo arrembante rincorrersi di gioie e dolori, rinvenendovi infine il senso che le è proprio attraverso i singoli atti che si porranno in essere in corso d’opera, così da poterne godere, pienamente ed autonomamente, fino all’ultimo istante.
Immagine di copertina: Tilda Swinton e Julianne Moore (Movieplayer)






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