
Nell’ambito del progetto Il cinema ritrovato al cinema promosso dalla Cineteca di Bologna per riportare in sala i grandi classici restaurati, da lunedì 13 gennaio, nelle sale aderenti all’iniziativa, saranno proposti i cinque film, in versione per l’appunto restaurata, realizzati alla Toho, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, da Akira Kurosawa. Trattasi di titoli intesi a comporre nel loro insieme un perfetto ritratto del genio creativo proprio del cineasta nipponico: I sette samurai, Leone d’argento nel 1954 alla 15na Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ora nella sua versione integrale, il dolente Vivere, il noir Cane randagio, l’epopea ronin del dittico Yojimbo e del suo seguito Sanjuro, con il primo a costituire fonte d’ispirazione nel 1964 per Sergio Leone e il suo Per un pugno di dollari.

Un omaggio che rappresenta un’occasione per riscoprire, o scoprire nel caso degli spettatori più giovani e di quanti non si siano mai accostati alla sua produzione, un autore dallo stile fortemente personale. Kurosawa infatti, riallacciandosi narrativamente alla tradizione e figurativamente alla modernità, ha saputo coniugare nelle sue opere un accurato e notevole impianto formale, inteso ad avallare epicità, azione, senso dell’avventura, con una pregevole consistenza contenutistica, ponendo risalto alla psicologia dei personaggi e spesso mediando tra cultura orientale ed arte occidentale.
Nato nel 1910 e scomparso nel 1998, Kurosawa, dopo gli studi letterari e musicali e i tentativi di esprimersi per il tramite della pittura, esordì alla regia nel 1943, con il film Sugata Sanshiro, dando così il via ad una carriera comprensiva di oltre trenta lungometraggi, drammi contemporanei (gendaigeki) e storici (jidaigeki), legando la sua fama internazionale soprattutto a questi ultimi. A partire da L’angelo ubriaco (Yoidore tenshi, 1948) prese avvio la sua collaborazione con l’attore Toshiro Mifune, insieme al quale realizzò sedici pellicole, tra le quali spicca Rashomon (1950), tratto da due racconti di Akutagawa Ryūnosuke, Leone d’Oro alla 12ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e Premio Oscar nel 1952 come Miglior Film Straniero.

L’opera citata contribuì a far sì che cinema giapponese si affermasse in Occidente, mettendo in scena un rigore formale al contempo minimalista (l’essenziale scenografia) e ricercato (nella fotografia e nel montaggio, ad esempio), oltre alla suggestiva tematica dell’impossibilità per l’essere umano di offrire una versione concretamente oggettiva dei vari accadimenti cui può incorrere nel corso del cammino terreno. Dopo il grande riscontro conseguito da pellicole come il citato Shichinin no samurai (1954, I sette samurai), ispiratore del western I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960, John Sturges), la rottura del rapporto con Mifune ed alcuni insuccessi trovarono il loro apice in una crisi depressiva, fino a giungere al desiderio di farla finita.
Ma fortunatamente la reazione di Kurosawa andò a concretizzarsi nel ritorno dietro la macchina da presa, così da realizzare opere sempre memorabili, grazie anche all’intervento di finanziamenti provenienti dall’estero, capolavori quali Dersu Uzala (1975, Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure), Kagemusha – L’ombra del guerriero (1980, Palma d’Oro al 33mo Festival di Cannes, ex aequo con All That Jazz, Bob Fosse), Ran (1985, tratto dal Re Lear di Shakespeare) e Sogni (Konna yume o mita, 1990), realizzati con la collaborazione di alcuni registi ammiratori del suo lavoro (Francis Ford Coppola, Steven Spielberg e George Lucas).
“In Kurosawa sento il grande spettacolo, che è tutto, fiaba, storia, racconto, romanzo, apologo, messaggio; sento il cinema usato in ogni suo modulo espressivo; sento l’entusiasmo e la salute del vero artista, una generosità narrativa da far invidia a un Balzac. Il suo cinema è un miracolo espressivo” (Federico Fellini).






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