
L’uscita in sala del film Nosferatu di Robert Eggers, che riporta il vampiro alla sua originaria caratterizzazione di “essere non vivente” ripugnante e malvagio, simbolo di quel Male da cui l’umanità nel suo insieme tenderebbe a prendere le distanze, in conformità ai dettami sociali e alle proprie convinzioni morali, restandone però innegabilmente attratta, consente di ripercorrerne il cammino cinematografico, partendo dal 1922, anche se, prendendo come fonte la filmografia curata da Gianni Pilo in appendice all’edizione del romanzo Dracula di Bram Stoker edita da Biblioteca Economica Newton nel 1996, la prima apparizione di un vampiro sul grande schermo potrebbe farsi risalire al 1896, quando in una pellicola di Georges Méliès, Le manoir du Diable, apparve un grande pipistrello, che prendeva poi le sembianze di Mefistofele, per infine dissolversi in fumo una volta intervenuto un cavaliere che gli parava innanzi un Crocifisso.
In letteratura, invece, riconoscendo all’opera del citato Stoker, datata 1897, la rielaborazione di quanto la mitologia e il folclore avevano tramandato riguardo usi e costumi dei “succhiasangue”, nonché di altre creature terrificanti, si deve ricordare come il termine vampiro possa già rinvenirsi nel Dizionario filosofico di Voltaire, mentre nel 1819, sulle pagine del racconto breve The Vampyr, John Polidori ne delineò la figura con le fattezze aristocratiche e ammalianti di Lord Ruthven, ispirando opere successive. Ecco allora, fra gli altri, Varney the Vampire; or, The Feast of Blood (James Malcolm Rymer, romanzo pubblicato a puntate, 1845-1847), Carmilla (Sheridan Le Fanu, 1872), tomi che andarono via via ad aggiungere vari particolari ed inedite caratteristiche sui “non morti”. Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, vero e proprio archetipo del genere horror, rappresenta il primo film tratto dall’opera di Stoker, adattata per il grande schermo dallo sceneggiatore Henrik Galeen mutando la denominazione di protagonisti e luoghi, per evitare problemi con i diritti d’autore.

L’abile manovra non fermò però la denuncia della vedova Stoker: il regista F. W. Murnau perse la causa e, condannato a distruggere tutte le copie, ne salvò una, permettendo così al film di sfidare il tempo con il suo fascino magneticamente espressivo. La trama segue con una certa fedeltà il citato romanzo d’origine, a partire dagli stralci di lettere e scritti tratti da un diario ad introdurre e commentare la vicenda, resi attraverso dei cartelli descrittivi, alla pari dei dialoghi. 1838. Il giovane Hutter (Gustav Von Wangenheim), agente immobiliare a Brema, sposato con Ellen (Greta Schröeder), riceve incarico dal suo ambiguo principale Knock (Alexander Granach) di recarsi nei Carpazi, alla residenza del conte Orlok (Max Schreck), che vorrebbe acquistare una casa in città, proprio di fronte a quella di Hutter.
Giunto a destinazione, dopo la notte passata al borgo, Hutter fa la conoscenza del conte, persona gentile, ma non del tutto rassicurante, considerandone l’aspetto inquietante e certi atteggiamenti a dir poco frenetici alla vista del sangue che sgorga dal taglio ad un dito del giovane, cui incorre mentre affetta il pane. Al mattino Hutter nota dei segni sul collo, ma pensando a delle punture di insetto non vi dà molta importanza. Una volta concluso il contratto, Hutter ha ormai compreso da una serie di indizi come Orlok sia in realtà Nosferatu, il non morto delle leggende rumene, il vampiro sanguinario descritto in un libro trovato per caso al villaggio, e di esserne vittima. Chiuso in una bara, il conte è in viaggio su di un vascello verso Brema e lo stesso farà Hutter, riuscito a fuggire, via terra.
Tragici eventi si verificheranno nel corso della traversata e in conseguenza dell’arrivo del triste carico in città, presto sconvolta dalla peste, fino a quando Ellen, appreso dal libro come solo una donna pura di cuore che offrirà il suo sangue a Nosferatu, tenendolo vicino a sé sino al canto del gallo, potrà porre fine ai luttuosi eventi, gli si concederà per tutta la notte. Manifesto dell’Espressionismo tedesco, Nosferatu, eine Symphonie des Grauens si distacca in parte dalla citata corrente per la scelta messa in atto da Murnau di preferire riprese in esterni in luogo della stilizzazione decorativa propria della ricostruzione in studio. L’asprezza degli scenari naturali, sul cui sfondo si alternano immagini gioiose, come quelle di apertura, ad altre tetre e cupe (le desolate terre attigue al castello del conte), diviene un tutt’uno col dramma prossimo a verificarsi, il cui presagio si rivela per il tramite di una insinuante inquietudine che attraversa luoghi e personaggi, resa tangibile dalla forza delle immagini.
Lo si può notare in particolare nel montaggio parallelo che descrive il viaggio verso Brema di Hutter e del conte, o nelle tante inquadrature funzionali alla rappresentazione di un tangibile orrore. Ecco, ad esempio, la ripresa del lento avanzare della rigida figura del vampiro, lungi dall’essere fascinosa o ambiguamente sensuale nella sua ectoplasmatica raffigurazione, che avanza dal fondo verso l’obiettivo (l’apparizione notturna ad Hutter, o l’allungarsi dell’ombra dal muro verso la vittima, l’aggirarsi sul vascello a placare la sua sete di sangue, rappresentato da movimenti in obliquo e in diagonale della macchina da presa). Originale, poi, l’uso di un tratto di pellicola in negativo nella sequenza in cui la carrozza procede verso il castello (a sbalzi, un incedere raffigurato adoperando la tecnica del fotogramma per fotogramma), emblematica nel simboleggiare l’entrata in quel mondo dell’inconscio al cui interno trovano dimora paure idonee a sconvolgere la normalità della vita.

Il Male, personificato dalla figura di Nosferatu, si insinua nel quotidiano della buona società del tempo e ne sconvolge, interrompendole, le consuetudini esistenziali e lavorative, assumendo contorni metafisici nell’incontrare la Conoscenza e la Purezza, entrambe apportatrici di luce, di continuità dello status quo ante (fino a quando?), pur nella tragica, sacrificale, congiunzione di Amore e Morte. Nel 1979 Werner Herzog firmò regia e sceneggiatura di un eccellente remake, Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht). Scaduti i diritti d’autore, vennero ripresi i nomi dei principali protagonisti del romanzo d’origine, a partire dal vampiro, che riacquistava la denominazione Dracula, interpretato con magnetica e dolente immedesimazione da Klaus Kinski, proseguendo con l’agente immobiliare Jonathan Harker (Bruno Ganz), sua moglie Lucy (Isabelle Adjani) e l’ amica di quest’ultima, Mina (Martje Grohmann), con la particolarità di un’inversione dei ruoli riguardo le interpreti femminili.
Presenti, ovviamente, Renfield (Roland Topor), il principale di Harker, e il Dr. Van Helsing (Walter Ladengast). Herzog con la riproposizione del classico di Murnau intendeva in primo luogo, aderendo al movimento del Neuer Deutscher Film, volto a sviluppare nuove forme estetiche idonee a superare la crisi, economica e artistica, che attraversava il cinema tedesco, ed omaggiando il capostipite in più di una inquadratura, adattarne metaforicamente la narrazione all’attualità, rimarcando il lassismo dell’umanità nell’assecondare l’irrompere del Male, ammantando la cittadina tedesca di Wismar (in realtà le riprese si svolsero a Delft e Schiedam, nei Paesi Bassi, mentre la Cecoslovacchia andò a rappresentare la Transilvania), con l’ausilio della fotografia di Jörg Schmidt-Reitwein, di un’atmosfera spenta, spettrale, pronta ad accogliere la presenza mortifera rappresentata dalla peste.
Presenza già preannunciata in apertura dall’incubo di Lucy, una sequela impressionante di cadaveri mummificati (sequenza girata a Guanajuato, Messico, dove venne rinvenuto un gran numero di mummie naturali, persone decedute in seguito all’epidemia di colera del 1833). Memorabile la sequenza che vede la città ormai avvolta dal morbo, cadaveri in ordine sparso tra le strade brulicanti di ratti, mentre la popolazione sopravvissuta danza e organizza banchetti per celebrare l’ultimo refolo di vita. Il finale consegna l’umanità tutta al destino che si merita, prossima ad essere devastata da un nuovo “non morto”, ancora più potente considerando come si muova agevolmente in pieno giorno, cavalcando verso quel “deserto delle anime”, l’ignoto che prima o poi interesserà tutti, sulle note della dalla Messe Solennelle (Sanctus) di Charles Gounod.
Altrettanto indimenticabile la figura di Dracula delineata da Kinski, che si tinge ora non solo di una oscura eleganza, ma soprattutto di un’aura palesemente malinconica, sino a farci empatizzare con la sua condizione, la maledizione di una “non vita”, la condanna ad una solitudine eterna, appena confortata dalle voci delle creature della notte: “Il tempo è un abisso profondo con lunghe infinite notti, i secoli vengono e vanno… Non avere la capacità di invecchiare è terribile. La morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte. Riesce a immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose”.

Tacendo dello spurio e confuso Nosferatu a Venezia girato nel 1988 da Augusto Caminito, con Kinski nuovamente in panni vampireschi (ma senza il trucco previsto nel film di Herzog), pellicola afflitta da varie traversie realizzative (alla regia si succedettero Maurizio Lucidi, Pasquale Squitieri e Mario Caiano), arriviamo dunque ai giorni nostri, per scrivere del tanto discusso Nosferatu di Eggers. Il cineasta statunitense, la cui filmografia ha rivelato negli anni la propensione a muoversi con disinvoltura tra il cinema horror e il gotico d’autore, nell’elaborare la sceneggiatura cita esplicitamente tra le sue fonti d’ispirazione (lo si nota nei titoli di coda) Galeen (lo sceneggiatore del Nosferatu originario) e Stoker, ambientando la storia nel 1838, nella città tedesca di Wisborg (immaginaria, le riprese si sono svolte principalmente a Praga, ai Barrandov Studios), con un prologo risalente ad un anno prima.
In tale antefatto credo risieda la precipua innovazione rispetto alla ormai classica trama, nel senso che il “mostro” è richiamato dalle preghiere di Ellen (Lily-Rose Depp), per quanto rivolte intenzionalmente ad un angelo (il termine “provvidenza” nel corso della narrazione si ammanta di un significato sinistramente ambiguo), invocato per ovviare alle insoddisfazioni inerenti al proprio andamento esistenziale, ingabbiato nelle convenzioni dell’epoca, mentre la sua indole sarebbe propensa “scandalosamente” a travalicare le modalità d’azione e di pensiero inerenti alla tranquillità del “buon nido borghese”, assicurata dagli agi che il danaro andrebbe a garantire, come quelli offerti all’amica Anna (Emma Corrin) dal marito Friedrich Harding (Aaron Taylor-Johnson).

Tranquillità economica che vorrebbe procurarle il neo sposo Thomas Hutter (Nicholas Hoult), agente immobiliare, andando quindi ad accettare l’incarico conferitogli dal proprio superiore, Sig. Knock (Simon McBurney), recarsi in un borgo dei Monti Carpazi, in Transilvania, così da fare da mediatore col conte Orlok (Bill Skarsgård), che intende comperare una casa proprio a Wisborg, dove intende trasferirsi. La trama da qui in poi segue il consueto andamento, con l’intervento chiarificatore riguardo la tragedia che andrà a verificarsi del Prof. Albin Eberhart Von Franz (un eccelso Willem Dafoe), mentore del Dr. Wilhelm Sievers (Ralph Ineson) e studioso dell’occulto, tenuto a distanza per questo motivo dalla comunità scientifica. Sarà lui a comprendere la vera natura di Ellen, finora tenuta sotto controllo dall’etere e da uno stringimento del corsetto.
Eggers riprende sì la “solita storia”, ma ne rielabora le modalità di messa in scena, prediligendone l’ impatto visivo più che propriamente emotivo. Rende stupito lo sguardo ma, personale sensazione, preferisce suggerire più che far palpitare o sussultare, a parte qualche sequenza (come la prima apparizione di Orlok, nel citato prologo, rimarcata dai toni della colonna sonora di Robin Carolan). Orlok è realisticamente reso come un cadavere vivente, un repellente ammasso di carne putrida, dal respiro affannoso, sul cui volto risaltano lo sguardo malevolo, concupiscente, e i folti baffi (particolare quest’ultimo proprio del Dracula letterario). Si muove a fatica, suscitando al contempo ribrezzo e attrazione per la sua lascivia e sensuale ferinità primordiale.

La regia punta dunque al realismo, predilige inquadrature rigorose, densamente pittoriche, coadiuvata dall’apporto sinergico della fotografia di Jarin Blaschke (il film è stato girato in pellicola 35mm), dei costumi (Linda Muir, David Schwed) e della scenografia (Craig Lathrop). Insieme contribuiscono a creare un’atmosfera concretamente gotica, con i colori che tendono gradualmente alla desaturazione via via che la presenza del vampiro si rende più tangibile, fino ad arrivare ad una tonalità bluastra intesa a “rianimare” quel gioco tra luce ed ombre proprio del capolavoro di Murnau.
Per quanto quest’ultimo resti il prediletto dal vostro amichevole cinefilo di quartiere, consiglio la visione del film di Eggers, che, pur non aggiungendo e non togliendo nulla alla mitologia vampiresca, se non una maggiore e benvenuta attenzione alla protagonista femminile, va comunque a costituire uno dei tanti segnali di come in quel di Hollywood, credo sia stato notato da molti, si stia procedendo ad una revisione dei generi, omaggiando la tradizione ammantandola di modernità.
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Immagine di copertina: una scena dal Nosferatu di Eggers (Movieplayer)

Per la redazione dell’articolo si è rivelata utile la consultazione dei seguenti testi:
Dracula, Bram Stoker, Biblioteca Economica Newton, 1996.
Ciak si trema. Guida al cinema horror, Daniela Catelli, Costa & Nolan, collana Estetiche della comunicazione globale, 2007.
Diversamente vivi. Zombi, vampiri, mummie, fantasmi, a cura di Giulia Carluccio e Peppino Ortoleva, Museo Nazionale del Cinema-Fondazione Maria Adriana Prolo, Editrice Il Castoro srl, 2010.






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