
La scorsa domenica, 10 agosto, si è svolta la cerimonia di premiazione del San Benedetto International Film Festival, la cui IX edizione aveva preso il via venerdì 8 agosto, alla Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto. Tra le opere vincitrici, La ragazza d’argento (Italia, 2024, 24’), ambientato fra Milano e Trento e scritto e diretto da Alex Scarpa e Margherita Giusti Hazon, che si è aggiudicato il Premio Sybila (Miti e Leggende da tutto il mondo) con la seguente motivazione: “Per aver saputo dare vita, con alito di soave delicatezza e vivida plasticità, al viaggio carico di simbolismo di Alba, in una narrazione sospesa tra la realtà e il riverbero del realismo magico”. Qui di seguito, la mia recensione.
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Il cortometraggio La ragazza d’argento, scritto e diretto da Margherita Giusti Hazon e Alex Scarpa, mi ha piacevolmente coinvolto nel corso della visione, restituendomi tanto la sensazione, a me cara, del cinema come macchina del tempo, adusa al sogno condiviso, quanto quella inerente alla sua capacità di mediare con il reale, fino a giungere ad un ideale punto d’incontro tra le due entità. Credo non sia poi da sottovalutare l’apporto conferito alla narrazione dalla suggestiva combinazione tra regia, fotografia (Roberto Gallina), colonna sonora (Francesca Badalini) e interpretazioni attoriali.

Un insieme che riesce a conferire fluida naturalezza nel passaggio, tra l’onirico e il fiabesco, dal bianco e nero iniziale, quello della pellicola, degli anni ’20, in cui la protagonista Alba (Paola Calliari) è costretta a vivere quotidianamente un qualcosa che non gli appartiene, se non nella necessità della resa filmica, ai colori accesi del capoluogo lombardo. La città di Milano non viene ripresa nei suoi luoghi “tradizionalmente” frenetici, bensì in quelli più “meditativi” e immaginifici, gli scorci di alcuni splendidi parchi, la Darsena: diviene così lo scenario ideale a conferire densa visionarietà all’incontro tra la giovane donna e il coetaneo Filippo (Filippo Santopietro), una volta che la prima fuggirà dallo schermo in cui è rinchiusa e avrà di fronte un mondo a colori tutto da esplorare e, soprattutto, da ammirare con nuovi occhi.

Il suo sguardo, infatti, rinverrà coincidenza con quello di Filippo, reduce da una delusione amorosa: il loro conoscersi, la graduale scoperta di ciò che è inerente alle reciproche esperienze esistenziali, andrà a rappresentare la congiunzione di due diversità idonee a scovare comunanza d’intenti, in quanto daranno luogo ad un’accettazione delle rispettive individualità, condivisibile elemento salvifico. Comunque credo che, in buona sostanza, l’iter narrativo de La ragazza d’argento si offra a diverse interpretazioni da parte degli spettatori, in quanto le descritte peculiarità possono certo stimolarne il personale sentore emozionale.
La precipua sensazione avvertita nel corso della visione, così come a proiezione conclusa, è che questo bel cortometraggio non solo renda opportuna testimonianza alla vitalità del cinema indipendente, nella capacità di coniugare felici intuizioni, qualità e coinvolgimento del pubblico, ma sia inoltre intriso “della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni” (Shakespeare, La tempesta), anche nell’omaggiare debitamente il cinema delle origini, così come varie realizzazioni successive (l’ispirazione dichiarata è stata offerta da The Purple Rose of Cairo, Woody Allen, 1985).

Il tutto fino ad andare incontro al presente nel conciliare una fuga dal reale, a volte indispensabile e l’altrettanto necessario farvi ritorno, conciliazione sublimata in virtù del fermo immagine finale: nel buio della sala, appena rischiarato da quel fascio di luce che l’attraversa, si concretizza il senso proprio di una ritrovata magia, l’indissolubile legame tra lo spettatore e la Settima Arte, idoneo a conferire scambievole vitalità.






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