La gatta sul tetto che scotta (Cat On A Hot Tin Roof, 1958)

3451Mississippi. In una grande villa presso l’enorme tenuta del ricco proprietario terriero Harvey Pollit (Burl Ives), prossimo al ritorno insieme alla moglie Ida (Judith Anderson) da una visita medica, tutto è pronto per festeggiare il suo 65mo compleanno: Mae (Madeleine Sherwood), moglie del primogenito Cooper (Jack Carson) è intenta ad “ammaestrare” i loro cinque marmocchi perché siano pronti ad accogliere il nonno con canti e musiche, mentre il secondogenito Brick (Paul Newman), ex asso del football, una gamba rotta causa un’assurda prova atletica in solitaria e in preda ai fumi dell’alcool, è chiuso nella sua stanza ai piani superiori, sempre attaccato alla bottiglia, nonostante l’affascinante consorte Maggie (Elizabeth Taylor), cerchi di scuoterlo in ogni modo possibile.

I rapporti tra i due sono estremamente tesi, Brick non la degna della benché minima attenzione, rimproverandole di essere la causa del suicidio di un suo caro amico e compagno di squadra, Skipper. La ricorrenza del genetliaco si trasformerà man mano in tragedia, tra la rivelazione al padre di quanto si era cercato di tenergli nascosto, di essere afflitto da un cancro al colon, e le brame di Cooper e Mae sull’eredità, tramando d’interdire Brick, non considerando la predilezione che il genitore ha per lui, la reciproca volontà di chiarirsi e un suo impensabile scatto d’orgoglio, nel quale Maggie aveva a lungo confidato…

Tratto dall’omonima piece teatrale di Tennessee Williams, La gatta sul tetto che scotta si avvale in primo luogo della “robusta” regia di Richard Brooks, autore a suo agio nel trattare storie a tinte forti, che la traspone sul grande schermo, rispettando le classiche unità di tempo, spazio e luogo, con pesanti adattamenti nella sceneggiatura (della quale è autore, insieme a James Poe) relativamente ad un tema ben presente nella originaria rappresentazione, l’omosessualità di Brick, qui adombrata dal tema dell’amicizia tradita, pur intuibile tra le righe; in secondo luogo può contare su grandi prestazioni attoriali, in particolare, nell’ordine, Ives, Newman e la Taylor che tiene loro degnamente testa, capace di essere ora aggressiva, tra rabbia e risentimento, ora morbidamente sensuale.

Vengono così visualizzate, con rara e feroce efficacia, in un afflato che unisce vita e morte, le tematiche care a Williams della progressiva disfatta di una società, nello specifico quella del Sud degli Stati Uniti, che ancora si crogiola nella speranza di una sopravvivenza prolungata, basata su illusori simulacri, lusso e antichi agi, senza però riuscire ad esprimere le più elementari esigenze d’affetto e comprensione umana, in particolare nell’ambito familiare, dove tutto appare costruito sulla menzogna e l’ipocrisia, mentre i rapporti sessuali sono sempre vissuti in chiave problematica e conflittuale.

E’ l’America dei “self made man”, che non ha avuto l’opportunità, il lusso di sognare, come ora vorrebbero fare i suoi discendenti, richiamati dagli antichi valori ad una piena responsabilità, “a trovare il coraggio di vivere come loro quello di morire”, perché “gli eroi vivono 24 ore al giorno e non il tempo di una partita” .

L’incomprensione, i pregiudizi, i vecchi canoni basati su un distorto concetto di onore e rispettabilità sono forti marosi destinati ad infrangersi contro gli scogli della naturalità della vita in sé, ben rappresentata dalla gatta Maggie, che, per quanto conscia di camminare “su un tetto di latta rovente”, vi si aggrappa fortemente con gli artigli della determinazione, dell’amore incondizionato e della speranza. Da ricordare due film per la tv, ’76, Robert Moore, e ’85, Jack Hofsiss.


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